Intervista ad Anna Banfi: da due anni a Bellinzona, da una vita nella letteratura
Ne siamo certi. C’è una grossa fetta di lettori, anche “forti”, che quando si ritrova fra le mani un libro ignora che quella non è soltanto opera di uno scrittore. Al di sotto della superficie del testo c’è un’altra figura, colta quanto umile, votata all’analisi in profondità quanto alla tessitura di reti, inevitabilmente disponibile alla collaborazione, con un occhio rivolto all’autore e uno al lettore. È l’editor, colui che non mette mai il suo nome in copertina, pur contribuendo alla riuscita del libro. Fin dal primo incontro, in- tuisci che Anna Banfi è una perfetta rappresentante di una categoria che in Ticino non conta certo molti membri. Ecco, chi è un editor? Lo scopriamo con lei, da due anni alle Edizioni Casagrande. «Amo molto questo lavoro, anzi oggi mi dico che avrei dovuto iniziare prima». Milanese di nascita, filologa, liceo classico e studi in lettere antiche, un dottorato a Palermo sulle tragedie di Eschilo in epoca contemporanea, una breve stagione nel teatro. Sensibile al fascino delle metropoli e al richiamo dell’ironia, a Bellinzona era già arrivata alcuni anni fa per una prima esperienza. Prima c’era- no stati un viaggio di un anno in Australia – «già, dai greci ai cow-boy, facendo un po’ di tutto» – e il Master in editoria alla Cattolica a Milano, seguito dal primo lavoro da editor alla Pearson-Mondado- ri. Nella sua vita, tanti arrivi e altrettante ripartenze: «Ho sempre avuto una certa resistenza verso il lavoro fisso, il fatto di stare dietro una scrivania...».
Prima del ritorno a Casagrande, anche l’esperienza in un’altra grande casa editrice italiana. Breve: «Lavoravo nella saggistica, ma ho scelto di lasciare perché non ero in sintonia con le loro scelte». Dopotutto, la cultura esige una forma di fedeltà ai propri valori.
Ricordi quando ti sei avvicinata alla letteratura?
Ho letto sempre molto, fin da piccola, fin da quando non ho memoria. I miei genitori mi dicono che ero sempre con un libro in mano. Ricordo ancora quelli che mi sono entrati dentro, come ‘La capanna dello zio Tom’. Quello è stato l’avvicinamento alla letteratura un po’ più ingenuo. Poi arriva l’uso più consapevole.
Che cosa cercavi nei libri?
Qualcosa che non mi fosse indifferente. Quando leggevo un libro, volevo sentire che quel libro mi faceva qualcosa, anche fisicamente. Un po’ quello che sosteneva Kafka, in fondo un libro se non ti colpisce come un pugno nello stomaco, nel bene o nel male, a che cosa serve? È la necessi- tà di sentire che quella esperienza in qualche modo un po’ ti cambia; ti fa pen- sare a qualcosa a cui non avevi mai pen- sato, ti induce a vedere qualcos’altro in modo diverso.
E oggi come ti avvicini ai libri?
Intanto, il lavoro che faccio credo mi aiuti a capire fin dalle prime pagine se un libro può interessarmi. Io passo le giornate a leggere, la consapevolezza è aumentata e quando leggo riesco a fare più connessioni con altri libri. Un autore che a me piace molto, proprio per questa capacità di aprire mondi mettendo in relazione altri scrittori, è Enrique Vila-Matas: ha la capacità di porti sul piatto tanti au- tori, ma senza mai mettersi in cattedra. E ti obbliga a dirti “io questo scrittore devo leggerlo, voglio assolutamente sapere cosa dice”.
Chi è un editor, che cosa fa e come incide su ciò che leggeremo. Come lo spiegheresti?
Quella dell’editor è una professione con più facce. Prima di tutto c’è un lavoro di squadra, in cui l’editor contribuisce a costruire il programma editoriale e a una selezione di titoli in base a ciò che arriva in casa editrice e a una costante ricerca di progetti diversi: classici, chicche non pubblicate, nuovi autori. Bisogna avere sempre le antenne tese, un editor deve leggere tantissimo ed essere sempre informato: deve sapere dove sta andando la letteratura. Dopo c’è il lavoro che a me piace di più, quello sul testo. Spesso chi va in libreria ignora che quel libro non è lo stesso arrivato sul tavolo dell’editor, magari è molto diverso e per giungervi l’editor ha dovuto faticare molto, in un corpo a corpo con l’autore. Poi, a volte incontri scrittori disponibili ad ascoltarti, a volte altri che non lo sono; a volte c’è chi ti ringrazia, altre chi non ti saluta più... Ma questo è il lavoro dell’editor: il ragionamento sul programma, la selezione dei titoli, il lavoro sul testo, il rapporto sempre diretto con l’autore.
Che cosa ti guida nel riconoscere un buon libro?
Penso sia soggettivo, però un editor deve avere un gusto. Quello che in un manoscritto deve esserci è la lingua, se mancano le basi non può funzionare. Poi, una casa editrice è un’azienda culturale, ma è un’azienda, quindi si deve sempre pensare a chi quel libro potrebbe arrivare. Un editor di saggistica deve capire se il tema di cui si scrive ha un pubblico di riferimento, un editor di narrativa dovrebbe cogliere se il libro che ha fra le mani sa aprire dei mondi; e lo può fare solo attraverso la lingua, la parola.
Cosa un editor non può accettare?
Quando lavori su un testo sei al servizio del libro e dell’autore, ma hai sempre un occhio sul lettore. Di certo quello che mi ferisce molto, e che non ho ancora imparato ad affrontare, è quando pur lavorando in coscienza, dall’altra parte c’è un autore con il quale si creano frizioni e incomprensioni. Forse, in maniera utopica, mi piacerebbe che si creasse sempre una certa complicità.
Dunque, in che direzione sta andando l’editoria?
Tenere le antenne tese e sapere dove sta andando, non significa che si debba andare tutti in quella direzione. Però bisogna essere consapevoli di ciò che ci succede intorno, il nostro è un lavoro in connessione con il mondo. Quello che vedo io adesso mi crea preoccupazione, siamo davvero in una fase di crisi sociale. Si è sdoganato l’odio e credo che se ti occupi di cultura devi fare resistenza. Invece noto molte edizioni che si adagiano, si appiattiscono, per cui non si riconosco- no più le rispettive anime. Al contrario guardo con piacere alle molte piccole e medie case editrici che fanno bene il loro lavoro, hanno un’identità ben precisa proprio mentre ci troviamo in questo indistinto magma sociale, politico e culturale. L’identità è una strada che paga. E sento che anche noi di Casagrande, da qui, stiamo prendendo una posizione, ad esempio con un libro come ‘Passare a ogni costo’ di Georges Didi-Huberman e Niki Giannari. Ecco, riguardo al come scegliere un libro da pubblicare: anche in base alle sue implicazioni politiche.
Il libro che avresti voluto pubblicare?
Non so, è difficile... Mi sarebbe piaciuto qualcosa di Cees Nooteboom, sono affezionata al suo ‘Avevo mille vite e ne ho presa una sola’. In ogni caso mi piacerebbe riuscire a trovare una voce nuova.