Intervista a Roy Garré, giudice del tribunale penale federale e storico del diritto, sulla giustizia riparativa
La giustizia riparativa trova sempre maggior spazio, sia nei convegni – l’Istituto di diritto dell’Usi ne ha organizzato uno lo scorso novembre (vedi correlati) e un secondo nei giorni scorsi – sia nei tribunali e nelle carceri. Tuttavia se in molti Paesi europei la giustizia riparativa è istituzionalizzata e sostenuta dalla politica – seppure con risultati discontinui, come sottolineato martedì all’Usi da Brunilda Pali dell’Università di Lovanio –, in Svizzera possiamo al più parlare di “frammenti”, come da titolo dell’intervento di Roy Garré, giudice del Tribunale penale federale e storico del diritto.
Sì, citavo Didier Fassin che nel suo libro ‘Punire, una passione contemporanea’ scrive che nell’ultimo decennio “il mondo è entrato in un’era del castigo: le infrazioni alla legge vengono sanzionate con sempre maggiore severità. Tale tendenza non è direttamente correlata, come dimostrano tutti gli studi internazionali, ad alcun incremento della criminalità e della delinquenza”.
Questa è la tesi di Fassin. Per quanto mi concerne io mi rifaccio a Seneca e Platone: puniamo per prevenire nuovi reati e per stigmatizzare in maniera adeguata e giusta il crimine. C’è quindi una componente retributiva che è giusta – e che si manifesta nella durata della pena: più un reato è grave, più la pena è lunga – e c’è la prevenzione: evitare che la persona in questione commetta altri reati (prevenzione speciale) e che altre persone commettano reati simili (prevenzione generale).
Certo. Intanto è importante sottolineare che la giustizia riparativa non è alternativa ma complementare a quella punitiva tradizionale di cui non viene assolutamente messa in discussione l’importanza.
Non si mette in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale e si presuppone il consenso delle parti, cioè del reo e della vittima che possono in qualsiasi momento interrompere il percorso intrapreso.
Questo dipende dalle varie declinazioni della giustizia riparativa: ci sono Stati in cui può portare a un alleviamento della pena, a una pena condizionale o – penso al diritto penale minorile svizzero – all’abbandono del procedimento. Dipende dalle scelte legislative.
La conciliazione esiste sia a livello minorile sia – a determinate condizioni – di giustizia degli adulti e resta all’interno del paradigma giudiziario. La mediazione, che esiste solo a livello minorile, invece ne esce: il magistrato può, se le parti sono d’accordo, incaricare un mediatore, una terza persona esterna al mondo giudiziario. Ci sono esperienze molto positive, ad esempio nel Canton Friborgo, di mediazione. E c’erano esperienze positive anche per il diritto penale degli adulti, prima dell’entrata in vigore del nuovo codice unificato di procedura penale.
Era prevista nel progetto originale del Consiglio federale, con riscontri molto positivi nella procedura di consultazione. Poi, piuttosto a sorpresa, il parlamento non ha seguito queste proposte iniziali.
Le motivazioni portare nel dibattito sono essenzialmente due: finanziarie e di tipo federalista – non si voleva imporre ai Cantoni soluzioni di questo tipo. Penso che comunque dietro a queste ragioni ci sia uno scetticismo di base nei confronti della giustizia riparativa. Scetticismo che non trova riscontro nelle esperienze fatte in tantissimi Paesi europei dagli anni Ottanta in poi – e negli stessi Cantoni svizzeri in cui veniva praticata.
Sì. Forzando un po’ le cose, la potremmo trovare nella volontà conciliativa dei conflitti intercantonali presente nei primi Patti federali. Ma senza voler andare così lontano, è presente nel pensiero del padre del codice civile svizzero, Eugen Huber, centrato molto sulla tradizione delle decisioni ‘nach Minne und Recht’, una forma di equità al di là delle forme giuridiche strette. Su questo tipo di giustizia più conciliativa che formalistico-legale abbiamo una lunghissima tradizione in Svizzera, risalente al tardo Medioevo. È un discorso che va al di là del penale e riguarda più in generale le alternative extragiuridiche alla risoluzione dei conflitti. Il penale è la forma più forte di intervento dello Stato però la logica che sta dietro è la stessa: ricomporre uno squilibrio che si è creato nel tessuto sociale.
C’è effettivamente una proliferazione di normative penali all’interno di leggi speciali che potrebbero essere risolte con misure amministrative o di tipo civile. Per me il diritto penale dovrebbe concentrarsi sui beni giuridici fondamentali: la vita, l’integrità fisica, l’integrità sessuale, l’onore… Ci sono tutta una serie di condotte che non necessiterebbero dell’intervento del giudice penale – evitando anche di ingolfare la giustizia penale.
Per quanto riguarda i nuovi reati, è chiaro che se ci sono comportamenti legati agli sviluppi tecnologici – ad esempio la cibercriminalità – che necessitano di nuove norme penali, sono il primo a dire che è importante colmare queste lacune. Anche se il codice penale è fatto talmente bene che molte fattispecie concepite tra Otto e Novecento restano valide anche nel mondo virtuale: un’ingiuria resta un’ingiuria detta verbalmente o sui social media. Per quanto riguarda il punitivismo della popolazione, bisogna sfatare un mito: ci sono studi molto interessanti che hanno confrontato giudici professionisti e persone prive di una formazione giuridica sulla pena da irrogare in casi concreti. E, salvo alcuni casi particolari, tendenzialmente la popolazione è meno severa dei giudici professionisti. Un conto è discutere al bar di un caso di cui si legge sul giornale; un altro ritrovarsi in un processo a giudicare un altro essere umano.