Società

Sei forte papà

Di musica, ascolti e ‘momenti belli’, quattro chiacchiere su Enzo con Paolo Jannacci

25 giugno 2018
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Lo stesso sottile umorismo istantaneo, la medesima lucida “stralunatezza”. E poi, i tratti somatici così vicini a quelli del padre da attenuare il vuoto di un caposcuola che ha lasciato la musica e questa terra nel marzo del 2013. Un vuoto che Paolo Jannacci, figlio di papà Vincenzo detto Enzo, ha deciso di colmare con ‘In concerto con Enzo’, a JazzAscona 2018 il prossimo 28 giugno alle 21.30 (Stage New Orleans). Lo spettacolo è una riproposizione dei classici di Enzo Jannacci, riletti da quelli che sono stati (Paolo in primis) inseparabili compagni di viaggio: Stefano Bagnoli alla batteria, Marco Ricci al contrabbasso e al basso elettrico e Daniele Moretto, tromba, flicorno e cori. Durante ‘In concerto con Enzo’, ai capolavori del papà si arriva gradualmente, passando anche dal colto repertorio pianistico di Paolo, il cui ‘Hard playing’ è l’ultimo capitolo discografico di un amore per il jazz che si potrebbe definire genetico...
Enzo Jannacci, a volte lo si dimentica, era un pianista jazz...

Era un buon pianista, sì. Ma aveva già troppa voglia di comunicare in maniera non convenzionale e quindi trascendeva i canoni del jazz dell’epoca. Aveva basi solide, ma non era così corretto come i pianisti degli anni d’oro del bebop. Questa cosa l’ha fatto crescere nell’altra sua veste, che poi l’ha reso famoso e ha caratterizzato la sua carriera.

Si può dire che il jazz gli stava stretto?

Non gli stava stretto, era complementare. Il jazz per lui rimaneva comunque l’anima della creatività, qualcosa con cui crescere. E pretendeva che fosse sempre la base di ricerca in campo musicale, il perno dell’intenzione applicata alla musica.

Che cosa ti faceva ascoltare?

Mi faceva sentire le prime orchestre, Count Basie, Bud Powell. Però sai, quando sei un ragazzino, forse, non ti è possibile capire proprio tutto. Avverti che c’è qualcosa di bello, ma certe sfumature le comprendi più avanti, con la maturità.

Sei stato il punto di arrivo della discografia di papà, dove il jazz non è mai mancato...

L’impostazione jazzistica pura, che è continuata sino all’ultimo suo concerto, è partita con Franco Testa e Stefano Bagnoli. Ma anche le fondamenta più anni 80, l’epoca nella quale papà suonava con Alfredo Golino, Julius Farmer, Tullio De Piscopo, le davano musicisti che sapevano suonare la musica popolare e che erano anche grandi jazzisti. La dimensione jazz è continuata con Marco Ricci, grandissimo bassista, un poeta dello strumento, ma anche grande pianista. Almeno un tempo, ora non più (ride, ndr). Marco, dal punto di vista melodico e armonico, ha grandi idee che fa sentire con uno strumento quasi monofonico, una soluzione musicalmente sempre molto felice.

Nessuna voce dall’alto ti ha mai suggerito di fare il cantautore?

Sto cominciando e mi sono già fermato. Sono già due anni che ho inciso un disco di canzoni e ne ho buttate via la metà. Sarebbe la mia opera prima e vorrei fare una cosa che rasenti almeno la decenza. Poi, io che sono critico continuo a buttare via pezzi. Forse il problema è che ascolto il parere di tutti. Sono a metà strada, ma vorrei farlo uscire presto. Il canto è il mezzo di comunicazione più veloce, più intenso rispetto a uno strumento che deve mediare di più.

So che la domanda equivale a ‘parlami del sistema solare’, ma chi era Enzo Jannacci?

Ho provato a farmelo spiegare da Michele Serra, tempo fa. In sintesi papà era un medico e un artista, uno che ha continuato con la sua grande energia a perseverare nella creazione di elementi comunicativi. Aveva questa forza incredibile di comunicazione e di simpatia che insieme facevano sempre la differenza, una forza che lo ha caratterizzato per tutta la vita.

Figlio e suo musicista allo stesso tempo: i momenti più belli?

Quando ridevamo di un esperimento fallito. Mi ricordo che sfruttavamo tanto i tempi del sound-check per creare qualcosa di nuovo. È una cosa che ama fare anche Sting. Durante quell’oretta di sound-check, al papà veniva in mente qualcosa di nuovo e ci lavoravamo sopra. Anche perché non serve provare cinquecento volte un brano. Con Bagnoli, Ricci, Moretto, una volta che hai capito la tessitura di un brano puoi lavorare sulle finezze e perfezionare, per arrivare a qualcosa di veramente bello. Non ricordo quale brano fosse, ma una volta successe che alla fine uscì un obbrobrio. Ridemmo e ci dicemmo che almeno ci avevamo provato. Lui disse “Ecco, abbiamo buttato via un’ora. Grazie a tutti, comunque molto bravi. Vado a mangiare una banana”. Questo era il mio papà.