Intervista all’antropologo Marino Niola, ospite di ChiassoLetteraria, sulle mode alimentari, tra superfood e cibi cattivi
Dalla psiche allo stomaco, dall’immaginario collettivo alla tavola condivisa: è un argomento radicalmente umano, il tabù, scelto come tema della tredicesima edizione di ChiassoLetterari. Tra i vari ospiti che fino a domenica affronteranno le mille sfaccettature del proibito, troviamo anche l’antropologo Marino Niola che, oltre a partecipare stasera alla cena “senza tabù”, domani, domenica 6 maggio, alle 16.45 dialogherà con il giornalista Enrico Bianda sulle moderne tribù alimentari.
Marino Niola, le abitudini alimentari continuano a definirci, ma al contrario: un tempo eravamo quello che mangiavamo, adesso siamo quello che non mangiamo.
Esatto: un tempo la frase di Feuerbach – quel “l’uomo è ciò che mangia” che ha citato – aveva abbastanza rispondenza nella realtà, ma oggi la situazione è molto più complicata. Siamo più cose contemporaneamente: siamo in parte quello che mangiamo, ma siamo anche quello che non mangiamo perché spesso a definirci, più che i nostri totem, sono i nostri tabù. Con in più la variabile del mercato che fa il bello e il cattivo tempo.
Quindi siamo quello che mangiamo, quello che non mangiamo e quello che compriamo. Ne viene fuori uno scenario assolutamente schizzato: il paesaggio alimentare contemporaneo che riflette un corpo sociale che è a sua volta sempre più frammentato e spezzettato, sempre più connesso ma allo stesso tempo sempre più isolato.
Connessi e frammentati, per cui un vegano ticinese dialoga con vegani di altre nazioni ma magari non con i suoi vicini di casa che mangiano risotto e luganiga…
È la tribalizzazione alimentare, come l’ho chiamata nel mio libro ‘Homo dieteticus’. Con la precisazione che le nostre sono “tribù 4.0”, non quelle in carne e ossa di gruppi che si guardano e si toccano. Siamo passati dalle comunità alle community, dal “face to face” al “face to facebook”, manifestazione della trasformazione in corso, dalla società del cogito a quella del digito.
Tutto questo si riflette nell’alimentazione, a iniziare dalla facilità con cui si viralizzano le mode – e i tabù – alimentari, le false credenze, le passioni, le fissazioni, le ossessioni.
Però il numero di legami, per quanto virtuali, aumenta, e aumentano anche le possibilità di dialogo…
È difficile dire cosa è meglio: ogni tempo ha le sue forme e questo è il tempo di queste forme virtuali. Molto probabilmente i nostri genitori erano più sicuri di noi e questo per varie ragioni. Alcune economiche: c’era più sicurezza nella propria posizione, nel proprio posto di lavoro, nell’avere la pensione. Ma erano anche più sicuri perché si sentivano meno isolati: l’insicurezza contemporanea – che ripeto si riflette massicciamente nel cibo e nelle scelte alimentari – deriva anche dal fatto che ognuno si sente solo alle prese con il compito impari di fare fronte a una realtà sempre più complessa.
Mi sembra di capire che, se prima c’era una identità condivisa, adesso abbiamo una identità suddivisa.
Abbiamo varie identità, vari modi per raggrupparci che però sono quasi sempre modi materiali, effimeri, interinali. E questo produce una società dove il tessuto connettivo ha fatto fuori il tessuto collettivo.
I precetti di queste ‘tribù alimentari’ cercano spesso giustificazioni scientifiche. Ma leggendo i suoi libri emerge come preponderante la dimensione simbolica. Il discorso scientifico è solo una maschera?
Sì, ma è una maschera pseudoscientifica, perché dietro certe demonizzazioni o certe esaltazioni non c’è nessun fondamento scientifico. Pensiamo alla facilità con cui certi alimenti diventano “cibi killer” o al contrario “superfood”. Poi arriva uno scienziato serio e ci dimostra che quei superfood in realtà non lo sono affatto.
Ma intanto ci crediamo: è difficile scardinare queste pseudocertezze che hanno più a che fare con la fede che con la ragione. Il nostro atteggiamento col cibo ricorda molto la religione: l’esigenza di regole, l’esigenza di distinguere il buono dal cattivo, il bene dal male. A riprova del fatto che la nostra è una società che apparentemente è secolarizzata, ma di fatto è più scristianizzata che secolarizzata perché la religione che è uscita dalla porta è rientrata dalla finestra sotto forma di regole e precetti alimentari. Abbiamo sostituito l’etica con la dietetica.
Però anche le religioni hanno le loro prescrizioni alimentari.
Certo, ma erano una parte. Pensiamo ai digiuni religiosi che servivano a purificare, mentre i nostri digiuni servono a drenare, che poi è la forma corporea della purificazione: nel primo caso si parla dell’anima, nel secondo del corpo.
C’è anche il caso dei cibi Kosher, sempre più popolari anche tra i non ebrei.
Perché l’autorità del rabbino che controlla tutto rassicura. E quella rassicurazione ha un enorme valore, in una società che chiede sicurezza.
Perché l’autorità del rabbino che controlla tutto rassicura. E quella rassicurazione ha un enorme valore, in una società che chiede sicurezza.
Questo perché l’idea che la curcuma sia un toccasana che preserva da tutti i mali è rassicurante e consolatoria. Ma uno scienziato non potrebbe mai dirlo. Basti pensare che ad Ancel Keys, lo scopritore della dieta mediterranea, dopo sessant’anni di ricerca chiesero se la sua longevità – è morto a 101 anni – dipendesse dalla dieta mediterranea, rispose “non ne ho ancora le prove”. Un modello di correttezza scientifica che però non è quello che serve per sedare l’insicurezza dilagante.