Ahmad ha 6 anni e un handicap. Dopo due anni in Ticino è stato espulso, ma alcune mamme non lo abbandonano
C’era una volta... No, c’è oggi un bimbo che ogni sera, prima di addormentarsi, chiede “quando arriva la mamma?”. Situazione nota a chi ha dei bambini: lei esce e dopo un tot inizia, incalzante, il ritornello, “quando arriva la mamma?”. Lui, Ahmad, il bimbo di questa storia, la sua mamma la aspetta da quattro anni. Da quando gli eventi hanno indotto la sua famiglia a separarsi e suo padre, Kameran, lo ha accomodato in un sacco e se lo è caricato in spalla, per poi attraversare con un altro figlio (Falamaz) la Turchia, il mare, la Grecia, i Balcani e l’Austria, transitando dalla Germania prima di giungere in Svizzera. Ahmad, infatti, è affetto da una malformazione del midollo spinale, la “spina bifida”, per cui non può camminare. Quando è partito dall’Iraq era il 2014. Aveva tre anni.
A volte le storie delle persone ci sfiorano, transitano nel nostro perimetro vitale, ci chiamano. Possiamo lasciarle andare oppure fermarle, farle entrare nostra storia. Questo hanno scelto un gruppo di donne ticinesi, quattro mamme e due insegnanti fra Giubiasco e Camorino – sei persone qualunque con una vita, un lavoro, una famiglia – che, a turno, temporaneamente e per quanto possibile, cercano di riempire quel vuoto nella quotidianità di Ahmad e di suo fratello. Loro sono le “mamme per Ahmad”.
Può dare un senso di vertigine, come sprofondare nella Storia che ogni giorno si consuma attorno a noi, pensare che quella degli Osman era una famiglia del tutto normale. Una famiglia del Nord della Siria, regione di Aleppo: padre tassista, madre casalinga, quattro figli: Rassoul, Falamaz, Leila e Ahmad, nato nel 2011, l’anno delle Primavere arabe e dell’inizio della guerra civile. Quando il conflitto ha travolto il loro villaggio, gli Osman si sono rifugiati in Iraq, dove per un paio d’anni Kameran ha lavorato come camionista. In seguito, per i siriani è diventato sempre più difficile trovare lavoro. Allora, la decisione: il viaggio verso l’Europa, nella speranza di trovare anche delle cure adeguate per Ahmad. I soldi per tutti però non bastano e la famiglia si divide. Dopo la marcia attraverso l’Est europeo, nei boschi della Germania il fermo di polizia, prima di approdare a Basilea e infine a Giubiasco.
Qui, per due anni, Ahmad, Falamaz e Kameran hanno trovato una vita “normale”, per quanto possa esserlo con il pensiero del resto della famiglia in Iraq e un padre camionista costretto a reinventarsi nel ruolo di“mamma”. La scuola e il calcio per Falamaz, l’asilo e le cure del dottor Ramelli all’ospedale San Giovanni per Ahmad. Soprattutto, l’accoglienza di una comunità in cui si sono integrati. «L’altro ieri, mentre raccoglievamo le firme a Giubiasco, il macellaio piangeva: non sapeva che erano dovuti partire e continuava a chiedersi dove fosse quel bambino», ci dice Stefano Ferrari, regista Rsi, che con moglie e figlia nei due anni ticinesi si è prestato come “famiglia di appoggio” per gli Osman.
Ancora oggi, Ahmad e Falamaz fra loro parlano in italiano. In Ticino, purtroppo, li ha raggiunti un decreto d’espulsione, poi ratificato dal Tribunale amministrativo federale. Gli Osman rappresentavano un “caso Dublino”, per cui è stato disposto il loro ricollocamento in Germania, dove erano stati registrati. Dopo due anni a Giubiasco, il 30 marzo 2017 la polizia elvetica li ha scortati nel Baden-Württemberg. Oggi si trovano nel paesino di Oberteuringen, in un prefabbricato in cui vivono una trentina di immigrati. Insomma, la Convenzione di Dublino ha prevalso su quella Onu sui diritti del fanciullo, anche nel caso di un bambino con handicap che qui, a Bellinzona, si stava rimettendo in piedi.
Kameran non si è più opposto all’espulsione in virtù di una promessa e di una speranza, rintracciate nella sentenza del Tribunale amministrativo. La speranza era quella del ricongiungimento familiare, possibile solo in Germania, la promessa che le cure di Ahmad sarebbero proseguite: «Spettava alla Svizzera accertarsi che queste garanzie divenissero realtà», dice Ferrari. Eppure, dopo sei mesi di abbandono, solo grazie alla caparbietà delle “mamme per Ahmad” il bambino è stato visitato, le cure sono riprese e il 13 marzo a Monaco Ahmad verrà sottoposto a un’operazione all’anca, nella speranza che possa iniziare a camminare. «Purtroppo, sei mesi possono essere determinanti in negativo», aggiunge Ferrari, che, per la rubrica ‘Storie’, su Ahmad ha deciso di fare un film. Titolo: ‘Ma quando arriva la mamma?’. Del resto anche lui, oggi, è ancora in contatto quotidiano con gli Osman.
Quando ha deciso che questa storia doveva diventare un film?
Ho iniziato ad accumulare materiale che definirei amatoriale, ero curatore educativo dei bambini e quindi filmavo per avere un ricordo nostro, familiare. La molla è scattata quando ho visto attivarsi questo gruppo di mamme, io per pudore non avrei mai fatto un film a partire dal mio ruolo in questa vicenda. Ma quando le ho viste pronte a partire per la loro missione, allora mi sono detto che sì, era una storia da raccontare. Siccome questi bimbi si sono fatti volere un bene enorme, queste donne hanno deciso di “sostituire” quella mamma che ancora non hanno vicino a loro. E dopo l’espulsione, si sono dette “noi non li abbandoniamo”. Per cui hanno iniziato i loro viaggi, portando generi di prima necessità, aiutando il papà nelle cure ad Ahmad e picchiando i pugni sul tavolo delle autorità tedesche affinché venisse visitato da un medico. E quando finalmente Ahmad è potuto entrare nella clinica di Ravensburg, l’équipe medica e il sistema sanitario si sono rivelati ottimi.
Qual è oggi per loro la speranza di ricongiungimento con la madre?
Loro sono partiti con questa speranza negli occhi, dopo che le autorità svizzere hanno spiegato che il ricongiungimento era possibile solo in Germania, dove sono stati registrati all’arrivo in Europa. Di sera pregano e guardano la luna, immaginando che anche lei la stia guardando, e Ahmad continua a chiedere “ma quando arriva?”, solo che questa mamma non arriva mai. La speranza si sta aprendo in questi giorni: con i nuovi ricongiungimenti disposti dal governo tedesco e un po’ con la nostra raccolta firme.
Dove sta per il regista l’equilibrio fra sguardo esterno e coinvolgimento personale?
Il mio coinvolgimento non è mai negato. Guardando il film si sentirà che la camera pulsa, perché ci sono mia figlia e la mia famiglia. Come ex curatore educativo mi sento però sollevato da ogni incarico, perché sono queste mamme ad aver preso in mano il testimone, ognuna con le sue competenze: è splendido.
C’è una storia nella storia. Nella vicenda dolorosa e irragionevole di Ahmad – che ha attraversato l’Europa in un sacco sulle spalle di suo padre, che da anni aspetta sua mamma, che dopo due anni in un paese che lo aveva accolto è stato respinto in una periferia commerciale del Sud della Germania – c’è una storia bellissima. È quella delle “mamme per Ahmad”, compattate da un legame quanto mai umano e disinteressato. Loro sono Elisa Spinelli, Nathalie Zanetti, Simona Gentili, Debora Molinari, Barbara Sgorlon (insegnante di Falamaz a Giubiasco) e Daniela Butti-Ferril (ex docente di sostegno di Falamaz).
Ne abbiamo parlato con Nathalie: «Siamo tutte interscambiabili, facciamo il possibile per far sì che sorrida, cosa che per altro fa sempre volentieri, nonostante tutto: è un bimbo speciale».
Lei come è stata coinvolta? «All’inizio da spettatrice, perché mia figlia era in classe con Falamaz, in prima media, e mi diceva della sua storia. Mi sono avvicinata di più quando è arrivata la decisione dell’espulsione, tutti i ragazzi della classe hanno vissuto davvero da vicino questa vicenda. Un conto è guardare i telegiornali, sentire o leggere delle storie, un conto è viverle: a me lo sguardo di Falamaz era entrato nel cuore. Così la professoressa di classe si è interessata e siamo venute in contatto per offrire loro un supporto: com’è possibile che un bimbo piccolo debba andare a dormire ogni sera senza il bacio di sua mamma? Questo interrogativo ci ha smosso il cuore e la pancia».
E così, un viaggio dopo l’altro in Germania, hanno redatto un appello da inviare anche ad Angela Merkel, affinché Ahmad possa avere vicino sua mamma almeno in ospedale: “Come può un bambino di 6 anni, che non vede la sua mamma da 4, affrontare un grande intervento chirurgico lontano da lei?”. Chiunque può firmare l’appello, entro questa settimana. Lunedì le firme verranno inviate in Germania. Per informazioni su come aderire: debomolinari@hotmail.com.