laR+
logoBol

Il declino della biodiversità parte (anche) dal nostro piatto

Gli ultimi dati emersi dal Living Planet Index, studio redatto dal Wwf, tratteggiano un futuro arido e preoccupante

Quando la Terra è nel menu (Depositphotos)

Gli ultimi dati emersi dal Living Planet Index, studio redatto dal Wwf, tratteggiano un futuro arido e preoccupante

10 ottobre 2024
|

Una linea rossa che, invece di cambiare rotta, continua a scendere sempre più a picco. Se tale segmento fosse legato ad azioni quotate in Borsa, gli uomini in giacca e cravatta di Wall Street – nonché gran parte del mondo politico – starebbero già gridando alla bancarotta oppure alla crisi finanziaria. Ma in questo caso si sta parlando di un patrimonio di valore incalcolabile: la fauna globale. Gli ultimi dati emersi dal Living Planet Index, studio redatto dal Wwf, tratteggiano infatti un futuro arido e preoccupante: i pascoli, le foreste, i mari e i cieli si stanno svuotando. E lo stanno facendo a un ritmo sempre maggiore. Basti pensare che negli ultimi 50 anni le popolazioni degli animali selvatici presi in esame sono diminuite in media del 73 per cento in tutto il mondo.

E non è un caso se alla parola ‘ambiente’ affianchiamo anche il termine ‘economia’, perché i due aspetti sono stretti da più fili. La natura è essenziale per l’esistenza umana ed è proprio su di essa che si basa l’intera economia, sui suoi servizi che garantiscono ad esempio la sicurezza alimentare, la riduzione degli impatti dovuti agli eventi naturali, l’acqua potabile, la salute e le medicine. Ma gli aspetti economici sono anche fra i principali responsabili della perdita della biodiversità. Perché in questo fitto arazzo di specie viventi – fra cui figuriamo anche noi esseri umani – le interazioni più che fili sono vere e proprie matasse e anche solo la perdita di uno di questi individui, può andare a intaccare l’intero sistema.

DepositphotosLa foresta amazzonica è in pericolo

A soffrire di più sono le popolazioni che vivono sott'acqua

Il Living Planet Index, pubblicato oggi, rivela come detto una tendenza allarmante. Dal 1970 a oggi, le popolazioni degli animali selvatici presi in esame sono diminuite in media del 73 per cento a livello globale. L’indice, ha preso nota delle variazioni demografiche di circa 35mila popolazioni appartenenti a 5’495 specie di vertebrati (ovvero anfibi, uccelli, pesci, mammiferi e rettili). Studiare il numero di individui presenti sul territorio non solo permette di osservare il grado di salute degli animali ma offre pure una preziosa diapositiva dello stato di conservazione di un determinato ecosistema. Della serie: dimmi quanti soggetti vivono nella casa e io ti dirò quante stanze ha e quanto bene “è arredata”.

I dati variano da una regione all’altra a causa dei diversi tipi e livelli di pressione esercitati sulla natura. I cali più marcati si registrano in America Latina e nei Caraibi, con un -95 per cento, in Africa (-76 per cento), Asia e Pacifico (-60 per cento). Chiudono la fila Nord America (-39 per cento) ed Europa (-36 per cento) dove gli impatti su larga scala sulla natura si sono già manifestati prima del 1970, il che spiega il trend meno negativo. Il degrado e la perdita degli habitat, causati principalmente dal nostro sistema alimentare, rappresentano la minaccia più frequente in ciascuna regione, seguita dallo sfruttamento eccessivo, dalla diffusione di specie invasive e patologie. Altre minacce includono il cambiamento climatico, che si palesa con maggior forza e devastazione in America Latina e nei Caraibi, e l’inquinamento, in particolare in Nord America, Asia e Pacifico.

Le popolazioni delle specie che vivono nelle acque dolci hanno subìto i cali più forti (-85 per cento), seguite da quelle terrestri (-69) e marine (-56). Ciò riflette la crescente pressione esercitata sugli habitat di chi vive sott’acqua. Come ad esempio le dighe che, sebbene portino benefici all’uomo creando energia sostenibile, modificano e alterano i corsi dei fiumi (spesso non permettendo i giusti deflussi), bloccando così gli spostamenti migratori dei pesci.

Il ruolo dell'economia

Che sia carne o verdura, l'abbiamo rubato da bocca ‘altrui’

Come detto, l’economia gioca un ruolo di rilievo nello scacchiere della salvaguardia ambientale. Fra i maggiori responsabili della perdita di habitat in tutto il mondo troviamo le nostre – discutibili – abitudini alimentari. Questo perché la grande industria alimentare ‘divora’ ogni anno ettari su ettari di territorio. Boschi e foreste vengono abbattute per far spazio a coltivazioni di alimenti per animali, come la soia o il mais, e le paludi bonificate per metterci serre oppure lo stesso bestiame. Anche l’uso di pesticidi contribuisce alla perdita di molte specie. Insomma, per sfamare noi stessi e gli animali domestici – che poi macelleremo e mangeremo – togliamo di bocca il cibo (e la casa) agli animali selvatici. Maggiore è il nostro consumo di carne e prodotti animali, tanto maggiore è il nostro contributo alla perdita di habitat naturali.

«Il Living Planet Report 2024 è un vero e proprio campanello d’allarme. Il nostro sistema alimentare è la causa principale della perdita di biodiversità: scegliendo un’agricoltura sostenibile e un consumo responsabile, in Svizzera possiamo dare un contributo importante per arrestare questo fenomeno», si legge in un virgolettato di Thomas Vellacott, Ceo di Wwf Svizzera, contenuto nel report.

Anche la crisi climatica, ovviamente, mette sotto pressione le popolazioni di animali: un esempio sono i delfini di fiume nella regione amazzonica i quali, con temperature dell’acqua che superano i 39 gradi, non riescono ad abbassare la propria temperatura corporea e muoiono a causa del calore.

DepositphotosUn gorilla di montagna

Le conseguenze: punti di non ritorno con ripercussioni globali potenzialmente irreversibili

Il Living Planet Index mostra che la natura sta scomparendo a un ritmo allarmante. Ciò ha ripercussioni gravi, perché se gli ecosistemi vengono danneggiati troppo gravemente, in modo brusco e senza preavviso si può arrivare a un punto di non ritorno, ovvero in una situazione in cui, una volta verificatasi, diviene estremamente difficile – se non impossibile – il ripristino dello stato originario.

Tra quelli che gli indicatori definiscono in inglese “tipping point”, che si può tradurre proprio con “punti di non ritorno”, spiccano l’estinzione delle barriere coralline, la distruzione della foresta amazzonica e lo scioglimento delle calotte glaciali in Groenlandia e Antartide.

La perdita delle barriere coralline, ad esempio, sta già avendo un impatto significativo su milioni di persone, compromettendo la pesca e la protezione delle coste. Nell’oceano, le ondate di calore marine determinate dal cambiamento climatico inducono il riscaldamento delle acque superficiali e causano lo sbiancamento dei coralli su larga scala. Nella Grande barriera corallina australiana sono stati osservati eventi di sbiancamento di massa tra il 1998 e il 2024. Mentre alcuni coralli della barriera possono riprendersi dagli eventi di sbiancamento, altri non riescono, e la loro resilienza è ulteriormente indebolita da altre pressioni, tra cui l’inquinamento e la pesca eccessiva. Il Panel intergovernativo sul cambiamento climatico ha previsto che il 70-90 per cento delle barriere coralline morirà anche con un riscaldamento globale di 1,5°C. La perdita di alcuni degli ecosistemi più ricchi di biodiversità del Pianeta avrebbe gravi conseguenze sociali ed economiche. Infatti, circa 330 milioni di persone dipendono direttamente dalle barriere coralline per la protezione dalle mareggiate, per le fonti di cibo e di sostentamento e per altri benefici.

Ma forse la situazione più allarmante è quella che riguarda la foresta amazzonica. La foresta amazzonica detiene oltre il 10 per cento della biodiversità terrestre del Pianeta, immagazzina 250-300 miliardi di tonnellate di carbonio e ospita oltre 47 milioni di persone. Poiché il cambiamento climatico e la deforestazione portano a una riduzione delle precipitazioni, si potrebbe raggiungere un punto di non ritorno in cui le condizioni ambientali in gran parte del bioma amazzonico diverrebbero inadatte per la foresta tropicale, innescando un cambiamento irreversibile. Gli studi suggeriscono che il punto di non ritorno potrebbe essere raggiunto quando sarà distrutto il 20-25 per cento di foresta pluviale, una percentuale che attualmente si aggira intorno al 14-17 per cento.

Se dovessimo superare questi limiti, l’intero ecosistema potrebbe cambiare in modo irreversibile, con conseguenze disastrose per il clima e la biodiversità in tutto il mondo. Gli impatti sarebbero devastanti, con perdite di biodiversità e valore culturale, cambiamenti nei modelli meteorologici regionali e globali e implicazioni per la produttività agricola e l’approvvigionamento alimentare globale. Un cambiamento di questa portata accelererebbe anche il cambiamento climatico globale, poiché l’Amazzonia passerebbe dall’essere un deposito di carbonio a una sorgente di emissioni a causa degli incendi e della morte delle piante. La sola Amazzonia potrebbe rilasciare nell’atmosfera fino a 75 miliardi di tonnellate di carbonio, creando così un pericoloso circolo vizioso.

Insomma il nostro pianeta, ancora una volta, lancia un grido d’allarme. Siamo sull’orlo della bancarotta, e ci dobbiamo domandare chi pagherà il conto.

DepositphotosOceani sotto osservazione

La spiegazione

Cos’è e come viene calcolato il Living Planet Report?

Il Living Planet Report è uno studio completo sui trend demografici a livello globale e sulla salute del pianeta. Giunto alla quindicesima edizione, il rapporto fornisce una panoramica scientifica dello stato della natura e include il Living Planet Index, che traccia i cambiamenti nel corso del tempo nella dimensione delle popolazioni delle diverse specie in tutto il mondo.

Il monitoraggio di specie animali (che sia un banco oppure il numero di individui presenti in una specifica zona di osservazione) viene fatto per diverse ragioni. Quando tale pratica viene effettuata per più anni in una particolare area, si può conoscere come è cambiata la dimensione della popolazione di quella specie in quella specifica località. Il Living Planet Index, fornito dalla Zoological Society of London, utilizza questi cambiamenti nelle dimensioni delle popolazioni per stabilire se, in media, l’abbondanza relativa delle specie monitorate è aumentata, diminuita o è rimasta la stessa.

Ma bisogna prestare attenzione. Il Living Planet Index non misura una media del numero totale di singoli animali o specie persi ma si focalizza sulla tendenza media nel cambiamento della popolazione delle diverse specie. Non fornisce dati relativi ad animali minacciati, a rischio di estinzione oppure estinti ma mostra l’andamento demografico dei vari esseri viventi. L’indice di quest’anno comprende 265 specie in più e 3’015 popolazioni in più rispetto all’ultimo report.