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Il Darwin Day del coronavirus

Come si evolve il virus e come la società si evolve in risposta ai virus: intervista a Gilberto Corbellini per la giornata dedicata al padre della teoria dell'evoluzione

11 febbraio 2021
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La teoria dell'evoluzione tramite selezione naturale è una delle grandi conquiste dell’umanità. In ambito scientifico, certamente: “Nulla in biologia ha senso se non alla luce dell'evoluzione” ha affermato il biologo Theodosius Dobzhansky, e i meccanismi messi in luce a metà dell’Ottocento da Charles Darwin e Alfred Russel Wallace trovano applicazione anche in altri settori come l’intelligenza artificiale. Ma la teoria dell’evoluzione è una conquista anche culturale: un nuovo modo, non finalistico, di pensare la realtà che ci circonda. Realtà che oggi è certo dominata da una pandemia: in occasione del Darwin Day, giornata dedicata alla teoria dell’evoluzione che si tiene ogni 12 febbraio in occasione del compleanno del naturalista inglese, abbiamo intervistato Gilberto Corbellini, professore ordinario di storia della medicina e docente di bioetica alla Sapienza di Roma e direttore del Dipartimento di scienze sociali e umane del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) italiano.

Gilberto Corbellini, anche il coronavirus segue l’evoluzione darwiniana.

La realtà biologica – e qualcuno pensa anche quella non biologica – è darwiniana per definizione: la spiegazione di Darwin, nella sua estrema sintesi, rimane valida; abbiamo avuto delle aggiunte con la scoperta del Dna, ma tutti quanti i meccanismi che abbiamo trovato hanno via via confermato che la teoria della selezione naturale è una legge, forse l’unica vera legge, della biologia.

E naturalmente il mondo vivente è composto in gran parte di microrganismi, e tra questi una cospicua parte, circa 1400 specie, è patogena.

Evoluzione darwiniana che non segue un fine, anche se magari per pressappochismo diciamo che una certa funzione si è evoluta per uno scopo.

Come ha detto giustamente, è un pressappochismo perché la nostra interazione con il mondo serve alla sopravvivenza e alla riproduzione: non ci siamo evoluti per capire la teoria della relatività, e per duecentomila anni abbiamo vissuto benissimo senza.

Il principio che dobbiamo tenere a mente è che quello che conta, alla fine, è lasciare una progenie numerosa e questo lo si può fare anche con qualche difetto, con tratti che non rientrano nella nostra idea di ottimalità. O con caratteristiche che assumono i contorni dell’aggressività o della patogenicità. I parassiti non vengono al mondo con lo scopo di farci del male e noi non siamo qui per un qualche scopo.

Tutto quanto avviene grazie a meccanismi che possono anche mettere a punto capacità straordinarie che tuttavia non erano prevedibili, non erano progettate in anticipo. Nessuno ha previsto che fossimo dotati di coscienza e per certi versi la potremmo considerare una fregatura: è probabile che animali senza coscienza funzionino molto meglio e stiano anche meglio di noi.

Il coronavirus non muta con uno scopo, come diventare meno letale in vista di una convivenza con gli esseri umani.

Tutto dipende dal contesto, dalle pressioni selettive e dalle variazioni che emergono.

Delle varianti che sono meno patogene sono funzionali in contesti dove è più difficile la trasmissione. Il virus in generale cerca una sorta di equilibrio vantaggioso per la propria sopravvivenza e riproduzione, quindi deve sfuggire al nostro sistema immunitario o ai vaccini. Vedremo quali varianti si avvantaggeranno e si diffonderanno più di altre. In questa fase è più probabile che prevalgano varianti che favoriscono la replicazione del virus, perché siamo solo all’inizio con le vaccinazioni. Via via che diminuiranno i soggetti suscettibili nella popolazione potrebbero venire fuori della varianti meno aggressive, magari diventando come un banale virus del raffreddore, ha sostenuto qualcuno.

Noi possiamo fare qualcosa, agendo sull’ambiente che seleziona le mutazioni?

Lo stiamo già facendo: con i trattamenti – di terapie al momento non ve ne sono – e adesso con i vaccini vediamo se svuotando il serbatoio dei suscettibili si favorisce la cronicizzazione del virus che, confrontato con minore possibilità di trasmettersi, ha bisogno di più tempo per trovare un soggetto in cui passare. Certo servirebbero farmaci per curare la malattia, ma per evitare che favoriscano varianti più aggressive dovrebbero agire sui processi infiammatori che provocano i danni, più che sul virus. Questo almeno se si ragiona in chiave darwiniana.

Popolazioni di virus stanno evolvendo in realtà ecologiche diverse: le varianti vengono fuori in  Brasile, Sudafrica, in Europa. Sono probabilmente già centinaia. La variante inglese potrebbe essere scaturita da un paziente immunodepresso: se questo fosse vero, ci troviamo di fronte a uno scenario che si poteva anche prevedere, dal momento che le persone con il sistema immunitario compromesso sono molte, nel mondo avanzato, e diventano quasi dei “terreni di coltura” dove virus e batteri possono sperimentare lo sviluppo di varianti meno aggredibili dai trattamenti tradizionali.

E questo vale anche per i vaccini: speriamo di non assistitere a fenomeni di insorgenza di resistenza ai vaccini, come invece accade con gli antibiotici.

Per gli antibiotici ci sono raccomandazioni per un uso corretto; per i vaccini, c’è modo di ridurre la possibilità di avere questa resistenza ai vaccini?

È più difficile. Intanto bisognerebbe avere dei vaccini molto efficaci, che “sterilizzano” l’ospite, che garantiscono non solo di non ammalarsi, ma anche di non trasmettere. Dei vaccini con scarsa efficace possono consentire una selezione di varianti in grado di sfuggire alla risposta immunitaria.

E poi bisogna cercare di vaccinare tutti e in tempi brevi: così il virus sarà “accerchiato” e non potrà andare da nessuna parte. Ma dobbiamo tenere presente che eradicare un virus è molto difficile: chi dice che dobbiamo cercare di raggiungere una situazione di “Covid zero” non sa di cosa parla. Finora ci siamo riusciti con un solo patogeno umano, il vaiolo,: con la poliomielite ci siamo vicini.

Si può pensare di estinguere le balene: è facile, sono grosse, le trovi in mare. Ma come fai a far sparire un virus che in questo momento è sparso ovunque in questo pianeta e in molti soggetti non dà sintomi o li dà leggeri?

Questa pressione selettiva funziona anche al contrario? C’è una relazione tra presenza di patogeni e alcuni valori sociali ed economici?

Certo. Su ‘Lancet Planet Health’ è appena uscita una ricerca della psicologa sociale Michele Gelfand su quelle che lei chiama società rigide e lasche (‘tight’ e ‘loose’). La sua tesi è che le culture rigide – di tipo collettivista, con un’adesione molto stretta alle regole, scarso individualismo, poca tolleranza – hanno avuto meno casi di coronavirus e meno morti. Questo perché nella storia delle società ci possono essere stati più o meno disastri e secondo lei quanti più disastri vi sono stati, tanto più c’è stata un’evoluzione in senso comunitarista, collettivista; quanto meno ce ne sono state, quanto più le culture hanno avuto un’evoluzione più “lasca”.

L’analisi che lei fa rispetto a Covid-19 non mi convince molto, ma ci sono prove che qualcosa di simile avveniva quando i nostri antenati non avevano né farmaci né vaccini e per contrastare la diffusione di agenti patogeni potevano basarsi solo sul comportamento e sull’osservazione di quel che accadeva nella società. È quindi scontato che si siano selezionati dei profili psicologici e dei comportamenti che avevano qualche vantaggio e aiutavano a tenere a bada gli agenti patogeni infettivi.

Si integravano nella società le norme di distanziamento sociale, riduzione dei contatti eccetera che adesso vengono raccomandate per motivi sanitari?

Sì, ma lo diventavano in modo diverso da come lo vediamo noi adesso. Abbiamo un’emozione che si chiama disgusto: tutti noi proviamo disgusto per delle sostanze, di solito legate all’alimentazione, o per l’apparenza di persone o animali, ma anche per dei comportamenti. C’è chi prova disgusto per l’omosessualità o per dei tratti etnici di stranieri: ci sono tanti modi in cui il disgusto entra in gioco nella nostra percezione del mondo sociale. Qualcuno pensa, e secondo me anche con una certa plausibilità, che il disgusto ci proteggeva da cibi potenzialmente tossici e anche da malattie trasmissibili: il disgusto ci tiene lontani da una persona deturpata o emaciata a causa di una malattia. O dagli stranieri: per i nostri antenati incontrare comunità straniere era un rischio per la diffusione di malattie. E poi usiamo quello che oggi chiamiamo “bias del contagio”: avere contatto con qualcosa di cattivo, di “malato”, può comportare che questo male venga trasmesso a noi.

La religione aveva e ha un ruolo fondamentale nel controllo delle malattie, basta guarda il numero di religioni presenti nei paesi temperati e quelle presenti nei paesi tropicali. Nei paesi tropicali, dove ci sono molti più agenti potenzialmente patogeni, vi sono un numero enorme di religioni con i loro rituali, pratiche alimentari,riproduttive eccetera che creano una diversità nella popolazione che la rende più resistente alle minacce infettive. È un po’ come avviene a livello genetico nelle popolazioni animali, esistono cioè strategie che favoriscono la diversità genetica in modo che se un parassita entra nella popolazione vi saranno comunque individui in grado di resistere, neutralizzarlo e trasmettere i geni adattativi alle successive generazioni.