Il carteggio tra il poeta Paul Celan e Gustav Chomed rivela il lato più intimo di uno dei più grandi poeti del Novecento
“[…] vedi, sarebbe una consolazione se soltanto avessi qui la tua mano e quella mano fosse aperta e tenesse dentro una lacrima che mi appartiene. Sarebbe una consolazione” (Paul Celan, 7 dicembre 1938).
Scriversi per ritrovarsi. Scriversi per riconoscersi. Scriversi per cercare un luogo dove volersi ancora bene. Sono solo tre degli infiniti motivi perché due amici intraprendano, improvvisamente, una corrispondenza epistolare, che li terrà legati fino alle ultime settimane della loro esperienza amicale e delle loro vite. I personaggi di questo particolare carteggio sono il poeta romeno Paul Celan e Gustav Chomed il figlio del sarto e compagno di scuola che Celan conobbe tra i banchi della loro città natale: Czernowitz.
1938-1970: trentadue anni di lontananze e di esistenze messe alla prova dalla guerra, dall’antisemitismo, dalla malattia che non hanno impedito loro di tracciare un meridiano di bene da spartirsi. Un carteggio curato da Anna Ruchat, nella traduzione di Annalisa Nelson e Maria Chiara Susini, capace di restituire un altro particolare, decisivo, della vita di Paul Celan che, si può ben considerare oggi, il più grande poeta del Novecento.
La sua storia è conosciuta, il suo passaggio nelle “grate” delle parole è proverbiale, come è necessario sapere quanto quell’uomo abbia lottato con la lingua della poesia contro e per una Storia che non le ha mai reso abbastanza giustizia. Il suo passaggio nella parola di poesia è stato un passaggio/paesaggio capace di portare la lirica a un altissimo livello di riflessione e di comprensione che, nell’umano, ha sempre cercato di trovarci un’alleanza possibile e probabile. Paul Celan in questo carteggio però, non è solo un poeta, ma un uomo bisognoso di relazioni, di amore e di comprensione. Tutto questo lo ritrova nell’ascolto disponibile e attento del vecchio compagno di scuola Gustav Chomed.
Un rapporto che si installa sulla lealtà di un tempo trascorso, che si concreziona in una visione della vita spartita da una volontà di sopravvivenza coatta che, entrambi, hanno cercato di mantenere viva. Ma la malattia psichica che attanagliava Celan era sconosciuta all’amico che, da lontano però ne indovinava il buio, ne intravedeva i ritagli, ne comprendeva i vuoti dai rari arrivi delle sue lettere. “Da quasi due anni […] sono diventato particolarmente sensibile da questo punto di vista, ho sempre paura che succeda qualcosa di brutto e a volte tendo a vedere le cose più nere di quanto non siano” (Gustav Chomed, 5 aprile 1970).
È Celan che per la prima volta da Tours scriverà il 7 dicembre 1938, lanciando l’amo che li terrà legati fino al 5 aprile 1970 quando, solo poche settimane dopo, Paul Celan si suiciderà, gettandosi nelle acque melmose e gelide della Senna.
Già il 14 novembre del 1965 l’amico scrive: “La tua lettera [caro Paul] era così cupa e desolante che non sapevo come risponderti, perlomeno sulla carta. Oltretutto, il tono generale sapeva così tanto di addio che ero quasi convinto che Tu non ti aspettassi proprio una risposta”. Ma le parole per loro non erano solo il viatico di due vite, ma gli strumenti di una rendicontazione vitale che hanno voluto condividere e scambiarsi come doni d’esistenze. Paul Celan non abbandona mai la riflessione che le parole lo conducono a fare, come se in ogni cosa e in tutto ciò che fa, egli dovesse sempre rispettare una poetica: la sua antiparola. “[…] nella mia poesia ho spinto alle estreme conseguenze l’esperienza umana di questo nostro tempo. Per quanto possa sembrare paradossale: è proprio questo che mi sostiene”, (Paul Celan, 29 gennaio 1970).
Non si incontreranno mai più. Non si vedranno più con i loro corpi, con le loro vite, ma con queste lettere, seppero come gettare ponti, approdi, partenze capaci di farli nuovamente appartenere, uno all’altro, come in un’amicizia.
Paul Celan e Gustav Chomed, ‘Ho bisogno delle tue lettere’, FT FinisTerrae-Ibis, 2024