Intervista a Claudio Ferrata, autore di ‘Scrivere la Terra’, libro che presenterà mercoledì alla Biblioteca cantonale di Bellinzona
Sulla copertina, l’illustrazione della Terra, con il tratto che delinea il globo che, al momento di chiudersi, traccia una mano umana: è vero che non bisogna giudicare un libro dalla copertina, ma nel caso di ‘Scrivere la Terra’ del geografo ticinese Claudio Ferrata (Mimesis 2024) possiamo permetterci una piccola eccezione alla regola, visto che quell’immagine ben rappresenta l’idea di geografia come incontro tra terra e umanità. Quella stessa immagine la troviamo anche sull’invito della presentazione del volume che avrà luogo mercoledì 13 novembre alle 18.30 alla Biblioteca cantonale di Bellinzona. All’incontro parteciperanno Paolo Crivelli e Ivano Fosanelli, oltre all’autore al quale abbiamo posto alcune domande.
Perché scrivere un libro sulla geografia?
Come dico nelle prime pagine, questo libro è una “presa di posizione” per la geografia. Si tratta di un testo che, oltre a costituire una riflessione sul mio percorso personale e sul contributo di alcuni importanti geografi che, in alcuni casi, ho avuto la fortuna di frequentare, vuole anche affermare la necessità della geografia davanti alle problematiche e alle forme di deterritorializzazione (pensiamo solo alle distruzioni portate dalle guerre in corso o dal mutamento climatico e la conseguente necessità di ricostruzione o di gestione) che il mondo contemporaneo ci presenta.
La geografia è spesso vista come semplice descrizione fisica del territorio.
Etimologicamente, la geografia (da geo graphein, disegno e scrittura della terra) è certamente una forma di descrizione della superficie terrestre. Non sarei però negativo sul termine descrizione, come non sarei negativo nemmeno sul termine localizzazione. Sapere dove è un luogo non significa determinarne una posizione su un Atlante, ma anche capire le relazioni che quel luogo intrattiene con altri luoghi presenti sulla superficie della Terra e con tutta una serie di fenomeni: il “dove” conta, così come conta il “chi”, cioè quali attori operano sul territorio, quale è la loro azione e quali sono i loro progetti e le loro visioni.
Per quanto riguarda la descrizione – così come la raccolta di informazioni attraverso una inchiesta sul terreno – dobbiamo dire che questa può costituire un primo, ma importante, passo all’interno di una analisi geografica. Come dice il geografo torinese Giuseppe Dematteis che cito nel libro, progettare il territorio significa essenzialmente costruire rappresentazioni interpretative di contesti locali nel loro rapporto con le dinamiche globali. In questo senso, la descrizione – che lui chiama “metafora della Terra” – diventa implicitamente progettuale: questa descrizione evidenzia infatti le connessioni e le relazioni che esistono tra i diversi fenomeni presenti sulla superficie della Terra e fa emergere gli elementi per un progetto di trasformazione.
Quindi è una scienza della Terra, del territorio ma anche dell’uomo?
Direi che la geografia è soprattutto una scienza dell’uomo che abita. I geografi, come aveva teorizzato Henri Lefebvre più di cinquant’anni fa, partono dall’assunto che il territorio è un prodotto sociale: esiste in quanto una società ha dei bisogni, delle esigenze, dei valori e quindi, dalla rivoluzione agricola fino all’urbanizzazione planetaria dei nostri giorni, essi hanno trasformato il mondo materiale attribuendogli una nuova organizzazione e nuove forme.
Metterei questa concezione del territorio in relazione con una grande categoria geografica – ma anche filosofica – che è quella dell’abitare. Per me la geografia è la scienza dell’abitare, o meglio ancora, del co-abitare, nel senso che non si abita mai da soli, si abita stabilendo una serie di relazioni l’un l’altro. Lo spazio (le strade, le piazze, i luoghi) diventa allora quell’elemento che ci permette di connetterci all’altro. Possiamo a questo proposito parlare di inter-spazialità. Co-abitare vuole anche dire interagire con i non umani, per esempio con il mondo vegetale e il mondo animale ma anche con i virus (come abbiamo visto con la diffusione del Covid-19), e pure con elementi non viventi come potrebbero essere i fiumi o le acque ai quali alcuni tendono oggi ad attribuire e riconoscere una “personalità” e uno statuto giuridico.
La geografia come disciplina è intrinsecamente multidisciplinare?
A questo proposito occorre fare una distinzione tra la geografia fisica e la geografia umana, che sono due campi del sapere che si rifanno a epistemologie diverse: la prima quella delle scienze naturali, la seconda quella delle scienze sociali. Le due convivono spesso sotto uno stesso tetto, inoltre, il geografo fisico non dimentica che i fenomeni di cui si occupa devono essere letti in relazione alla presenza dell’uomo sulla Terra. Il geografo umano, a sua volta, si preoccupa di condizioni di vita che sono comunque legate a un mondo fisico, a una diversità di ecosistemi presenti sulla superficie della Terra. In questo senso ritengo che la geografia sia una disciplina molto vicina al tema della complessità così come teorizzato da Edgar Morin.
Non ci troviamo di fronte a una “scienza di sintesi” come diceva Pierre George cinquant’anni fa. A mio modo di vedere questa definizione non è corretta. Ci troviamo piuttosto di fronte a un sapere che, partendo dal suo nucleo centrale, dai suoi concetti e dalle sue visioni, è in grado di operare anche ai suoi margini, permettendo così l’incontro con altre discipline. Ho avuto modo di sperimentare personalmente questa affermazione operando all’interno di alcuni progetti urbanistici. Aggiungerei che il geografo è portatore di due tipi di visione. In prima battuta è un generalista, cosa che permette di avere uno sguardo abbastanza completo sui problemi territoriali e anche di capire il ragionamento e di interagire con i rappresentanti di altre discipline. Ma chi si forma in geografia si specializza anche in uno specifico settore, ad esempio nel campo dei Sistemi di informazione geografica e della cartografia, del clima e dell’impatto del mutamento climatico sulle condizioni di vita. Quindi ci troviamo di fronte a una conoscenza che, nel contempo, è sia generalista che specialistica.
Nel libro c’è un capitolo sulla “geografia come immaginazione”. Come mai?
La geografia si occupa di una realtà materiale ma anche della dimensione immateriale: le immagini che costruiamo e di cui ci dotiamo contribuiscono a organizzare le nostre concezioni e visioni dello spazio. È questo un tema particolarmente sentito dalla geografia culturale.
Occorre poi dire che, dietro ogni pianificazione, ogni prassi urbanistica, c’è un’immagine (a volte questa viene esplicitata attraverso un modello o uno schema progettuale, altre volte no) che assume una sua operatività. Così, per portare un esempio, quando gli urbanisti e gli architetti pensano alle città, lo fanno sulla base di codici, immagini e narrazioni. Come nel caso delle World City, metropoli che intervengono direttamente nella competizione tra le città a livello globale. Attraverso operazioni urbanistiche in gran parte standardizzate (come l’edificazione di grattacieli sempre più alti, di giganteschi mall, di parchi a tema, di nuovi waterfront eccetera), questi centri vengono dotati di una immagine che dovrebbe essere accattivante e attrarre così investitori e professionisti svolgendo un ruolo non indifferente all’interno della competitività tra i luoghi del mondo globale.