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Le sostanziali apparenze sociali

Dalla Milano berlusconiana a Proust, la filosofa Carnevali invita a rivalutare la società dell’immagine e superare l’idea di un’esteriorità ingannevole

Modelle si preparano per sfilare a Milano
(keystone)
12 ottobre 2024
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Una delle idee più ricorrenti, e persistenti, della storia del pensiero occidentale è il dualismo tra interno ed esterno, tra una dimensione profonda, importante, autentica, vera e una dimensione superficiale, apparente, inautentica se non addirittura ingannatrice. Questa idea, e l’immediata conseguenza che dovremmo concentrarci sulla sostanza interiore e lasciar perdere le apparenze esteriori, la ritroviamo nella Grecia di Platone come nei pensatori cristiani o negli autori del Romanticismo. Oltre che nell’atteggiamento di sufficienza di molti contemporanei di fronte alla nostra società dell’immagine e dell’apparenza.

«Ci sono delle eccezioni, dei pensatori che hanno rifiutato questo dualismo tra interno ed esterno; alcuni anche sorprendenti: Pascal, nei ‘Pensieri’, si interroga sul problema della conversione, su come si fa a diventare dei buoni cristiani e la sua risposta parte appunto dall’esterno. Inginocchiati e prega, è la sua risposta: inginocchiati e prega e poi crederai». A ricordarci questo passaggio di Pascal è la filosofa Barbara Carnevali, convinta che questo pregiudizio verso l’apparenza rischi di portarci fuori strada, nel cercare di leggere e di comprendere anche criticamente la nostra società. Professoressa all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e docente all’Accademia di architettura dell’Usi, Carnevali ha lavorato a lungo su questo tema, dedicandovi un interessante saggio (‘Le apparenze sociali’, pubblicato dal Mulino nel 2012) e del quale parlerà oggi alle 17 a Bellinzona per il festival Sconfinare (sconfinarefestival.ch).

Questo interesse per l’immagine e l’esteriorità ha una duplice origine: la Milano berlusconiana degli anni Ottanta e Proust – si sarebbe tentati di dire “una più esteriore e l’altra più interiore”, ma si ricadrebbe in quel dualismo che dovremmo invece lasciarci alle spalle. «La mia adolescenza l’ho vissuta nella Milano di Berlusconi e della comunicazione, una città che già allora viveva di immagine e l’attenzione per l’estetica sociale è nato un po’ lì: volevo capire in che direzione ci si stava muovendo e cercavo gli strumenti adatti per farlo» ci ha spiegato Carnevali. E qui, prima dei filosofi – o forse proprio perché i filosofi erano perlopiù invischiati in quel dualismo – è arrivato appunto Proust. Perché in ‘Alla ricerca del tempo perduto’ troviamo anche le «straordinarie descrizioni di tutto il mondo che ruota intorno alla famiglia dei Guermantes e che rappresenta un po’ la costruzione estetica di un potere che i Guermantes non dovrebbero avere, perché sono sì una famiglia aristocratica ma nella Terza Repubblica che non riconosce più la nobiltà come diritto e come privilegio».

L’apparenza conta

Partire da qui ha significato, per Barbara Carnevali, rinunciare o almeno mettere tra parentesi quella tradizione filosofica dualistica. Tradizione non solo metafisica, ma confluita nel senso comune anche grazie al cristianesimo che contrappone sostanza e apparenza. Perché questa tradizione non può che portare a due conclusioni, «la prima considera l’immagine come qualcosa di semplicemente frivolo, da eliminare per andare alla sostanza delle cose; la seconda è la tradizione della maschera che pensa che l’apparenza nasconda un contenuto, lo distorca». Strumenti, ha proseguito Carnevali, inadeguati per comprendere il ruolo dell’immagine e dell’apparenza nella società, per capire non solo la legittima preoccupazione per il proprio modo di apparire, ma in generale come la dimensione della sensorialità del mondo interferisce con la nostra vita quotidiana. «Se restiamo ancorati all’idea che l’apparenza non conta, non potremo mai acquisire gli strumenti necessari ad affrontare una dimensione della nostra vita sociale alla quale non possiamo sfuggire». E questo non solo adesso che l’economia capitalistica ha esasperato la dimensione dell’immagine. «Pensiamo alla civiltà greca che noi tanto ammiriamo: la cultura greca dava una grandissima importanza alla questione dell’apparire sociale. O ancora alla società che viveva nelle varie corti, dal Rinascimento alla modernità: anche lì troviamo la cultura del sapere apparire insieme agli altri, del curare la propria autorappresentazione. E ancora oggi: l’altra sera ero a cena con alcuni amici americani e mi parlavano di Kamala Harris, di come si veste, di come si pettina perché è anche da queste cose che non solo emerge la sua personalità ma saranno, ci piaccia o meno, determinati i risultati delle elezioni politiche».

Il peso, maschile e femminile, dell’esteriorità

L’esempio del vestito di Kamala Harris solleva un aspetto importante: oggi questa attenzione all’esteriorità non rischia di penalizzare soprattutto le donne, soggette a codici estetici più rigidi degli uomini? «Sicuramente la questione è legata al genere» risponde Carnevali. «Le donne sono state tradizionalmente escluse dal potere e relegate in una posizione in cui più che agire dovevano piacere agli uomini perché da quello dipendeva la loro posizione nella società. Questo misto di passività e di dipendenza dal desiderio maschile ha esasperato non solo la sfera dell’apparire, ma anche il bisogno di conformarsi alle norme di presentazione del proprio genere». Tuttavia, aggiunge Carnevali, «sarebbe un errore pensare che gli uomini non si siano mai preoccupati della propria apparenza: oggi i codici di genere della mascolinità, che comunque sono in crisi da diverso tempo, prevedono un apparente disinteresse per l’aspetto esteriore, ma prima della Rivoluzione francese non era affatto così e, per esempio, nella società rinascimentale gli uomini erano molto più ornati e molto più modaioli delle donne».

E ancora adesso i codici di apparenza maschili possono essere molto stringenti. Pensiamo al completo scuro dell’uomo d’affari, «ma anche a come si vestono i professori della mia università, un ateneo diciamo “di sinistra” ma che di fatto ha una sua “uniforme casual” che è un modo di apparire in realtà studiato, con i jeans un po’ sdruciti, la scarpa da tennis eccetera». Sono regole del gioco con le quali tutte e tutti devono confrontarsi «ed è importante conoscerle per saperle poi governare più liberamente, per essere in grado di posizionarci e anche di rifiutarle coscientemente». Il primo passo per non essere vittime dell’apparenza è riconoscere la sua importanza e il suo ruolo, non rifiutarsi di prenderla in considerazione.

L’immagine della politica

Tornando a Kamala Harris: è giusto valutare un politico o una politica per come appare e non alle loro idee? «Lungi da me pensare una cosa del genere: ovviamente la prima cosa sono i valori che un politico trasmette e l’idea della società che propone. Però viviamo in forme democratiche con grandi partiti e campagne elettorali in cui conta tantissimo la comunicazione. Non sto dicendo che la politica deve vendere cose che non ha, ma che l’elettore che si informa deve essere cosciente del fatto che la comunicazione politica passa attraverso certi meccanismi». I due aspetti della forma e del contenuto, prosegue Carnevali, sono sempre legati l’uno all’altro e sarebbe sbagliato pensare che solo uno dei due sia importante. E del resto è anche difficile trascurare l’apparenza, «quando sui giornali si discute per giorni e giorni sull’armocromista di Elly Schlein o sul vestito di Giorgia Meloni».

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