Non solo filosofia dell’arte: la ‘Critica del giudizo’ di Kant è una chiave, ancora attuale, per comprendere l’essere umano nella sua complessità
Nel 1790, con la pubblicazione della ‘Critica del giudizio’, Immanuel Kant ha concluso il suo “sistema critico”, l’esame delle potenzialità e dei limiti della ragione. Non è una conclusione scontata: con l’analisi della conoscenza del mondo (tema della ‘Critica della ragion pura’) e della morale e del comportamento umano (affrontata nella ‘Critica della ragion pratica’), l’impresa potrebbe considerarsi conclusa. Ma Kant ha sentito la necessità di andare oltre, includendo quella che oggi chiameremmo esperienza estetica. «Questa opera è scritta anzitutto per un'esigenza sistematica: Kant si era accorto che, con le prime due critiche si era ritrovato da una parte con l'analisi del sensibile, dall'altra con l'analisi del sovrasensibile» ha spiegato Serena Feloj, professoressa di Estetica all’Università di Pavia. «Il sensibile e il sovrasensibile sono le due parti che compongono l'essere umano, ma poi vanno messe insieme in quello che Kant chiama il passaggio da natura a libertà».
La ‘Critica del giudizio’ è la “terza critica”: una questione di ordine cronologico ma forse, almeno per la sensibilità contemporanea, anche per importanza.
La ricezione della ‘Critica del giudizio’, nel 1790, fu immediata, grazie anche all’autorevolezza che Kant aveva raggiunto con le opere precedenti. Schiller e Goethe, quindi due figure tra le più importanti per la storia dell’estetica, hanno entrambi recepito immediatamente la ‘Critica del giudizio’, sviluppando a partire da Kant il proprio pensiero.
All’inizio dell’Ottocento la ‘Critica del giudizio’ fu molto importante sia per il romanticismo sia per l’idealismo. Il giovane Hegel la lesse attentamente ma non come la possiamo leggere noi, come un trattato sul gusto, ma per il tipo di spiegazione che ha dato del nostro rapporto con il mondo. Un rapporto non più categorizzante, quindi nelle linee della ‘Critica della ragion pura’, ma attraverso il cosiddetto “principio di finalità”, cioè attraverso la proiezione del soggetto sul mondo, riconoscendo il bisogno dell’essere umano di “mettere in ordine la natura”.
Qualcosa di più ampio di quella che oggi chiamiamo filosofia dell’arte.
Studiare il giudizio estetico, per Kant e per i suoi primi lettori, non significa soltanto studiare l’opera d'arte o il gusto: quella estetica è un tipo di esperienza del mondo governata da principi differenti rispetto a quelli epistemologici e categorizzanti.
Questo spiega la forza dirompente della ‘Critica del giudizio’ e la sua importanza nell’Ottocento.
E nel Novecento? L’importanza della ‘Critica del giudizio’ si è forse ridimensionata?
Non direi. È vero che ci sono stati autori che, anche al di fuori della tradizione filosofica, hanno rifiutato Kant. Penso ad esempio al francese Pierre Bourdieu che ha scritto ‘La distinzione’, uno stupendo testo di studi sociologici nel quale uno dei primi capitoli si intitola proprio “Un'estetica antikantiana”. Ma nel Novecento c’è anche una ripresa. Per esempio Hannah Arendt che ha reso la ‘Critica del giudizio’ un testo politico o tutta la riflessione sulla comunità del gusto, sulla possibilità di usare l'esperienza estetica come una forma di coesione sociale. Abbiamo poi la ricezione dell’estetica kantiana da parte di Max Horkheimer e di Hans-Georg Gadamer. Troviamo dei punti di contatto con la terza critica anche in un autore che non ha studiato direttamente i testi di Kant: Ludwig Wittgenstein che ha ripreso l’idea di un rapporto ordinario con il mondo, non l'astratta categorizzazione che porta un giudizio di conoscenza, ma piuttosto un rapporto quotidiano, dominato dall'indeterminatezza e dalla vaghezza e non dal rigore della conoscenza.
Kant e la sua terza critica non sono quindi stati dimenticati. La filosofia contemporanea, che ha una forte impronta analitica anche in estetica, per quanto meno marcata che in altri ambiti filosofici, si interroga su temi kantiani. Uno dei filoni secondo me più promettenti del dibattito contemporaneo riflette proprio sulla possibilità di formulare dei giudizi estetici, non solo di fronte all'opera d'arte ma per esempio anche di fronte alla natura: in questi giudizi c’è una qualche forma di regolarità? In questo dibattito sulla normatività dell’estetica i punti di partenza sono due: Hume e Kant.
E c’è questa regolarità?
La percezione dell'opera d'arte crea in qualche modo una coesione all'interno di un gruppo culturale. Il che non vuol dire che non ci siano i cosiddetti conflitti estetici, ma che anche se si discute di arte – cosa che vediamo soprattutto nell’arte contemporanea –, ogni tipo di arte, inclusa quella diciamo non istituzionale, crea coesione. È un tema che mi interessa molto sul quale Kant credo abbia ancora qualcosa da dire: che cosa condividiamo quando parliamo di opere d'arte? Come mai riusciamo in qualche modo a sintonizzarci intorno a qualcosa che apparentemente è privato, cioè il sentimento, le emozioni che ci suscita una determinata opera d'arte?
Sempre a proposito dell’attualità di Kant, l'arte contemporanea ha spesso recepito istanze kantiane. L’arte concettuale, ad esempio, ragiona molto sul tema della forma e la riflessione di Kant ha sicuramente dato molti spunti. In alcuni casi la ripresa è esplicita: l’artista Barnett Newman ha scritto un piccolo trattato intitolato ‘The sublime is now’, il sublime è adesso, e realizzato un’opera, ‘Vir Heroicus Sublimis’ che di fatto è un enorme rettangolo rosso, chiaramente partendo da Kant che si interroga sulla possibilità di dare forma al sublime.
Tornando allo “sguardo non categorizzante”: possiamo considerarlo un modo per superare i limiti della conoscenza razionale tracciati nella ‘Critica della ragion pura’?
Bisogna fare una premessa: Kant, ovviamente, non è un romantico e bisogna quindi stare attenti a non leggere Kant sulla base di interpretazioni successive. Ma è corretto dire che la ‘Critica del giudizio’ nasce proprio per mettere insieme le due dimensioni dell’essere umano che emergono nelle prime due critiche. Perché se è vero che ci sono due parti, quella sensibile e quella sovrasensibile, quella della natura e quella della libertà, è altrettanto vero che l’essere umano è uno.
È interessante che, in alcune lezioni grosso modo contemporanee alla stesura della terza critica, Kant affermi che il sentimento del bello è ‘proprium’ dell’essere umano, qualcosa che lo caratterizza profondamente. E nello stesso periodo tiene una serie di lezioni dedicate all'antropologia, intesa in senso settecentesco come lo studio delle caratteristiche dell’essere umano. Leggendo insieme questi testi si capisce che la domanda sulla natura umana è stata una grande spinta per Kant: l’estetica come modo per scoprire l’interezza di un essere umano composto dalla parte epistemologica e dalla parte morale.
È un aspetto che considero centrale non solo dal punto di vista della storia della filosofia e degli studi kantiani, ma se vogliamo anche per portare in qualche modo Kant nel nostro mondo.
Perché avremmo bisogno dell’estetica kantiana?
Perché credo che sia importante un richiamo a riconoscere questa dimensione della nostra esperienza, una dimensione che è anche sentimentale, che non è rigorosa, che non è strettamente governata dall'intelletto ma che restituisce la complessità della nostra ragione. È importante perché mi sembra che vi sia una pressione per una forma di controllo costante che ricorre a categorie provenienti dalla scienza e da altri saperi ma che non restituiscono la complessità della nostra realtà.
Dobbiamo fare i conti con la contingenza di una realtà che è complessa, che non è prevedibile, che è indeterminata, che è vaga e che però deve essere assunta come tale. Il nostro intelletto, e questo Kant lo riconosce benissimo, è finito, è limitato, non è in grado di sostenere il caos, quindi ha bisogno in qualche modo di dare un ordine. E secondo Kant, la descrizione dell'esperienza estetica ci permette di rendere conto da un lato di questo nostro bisogno di ordinare il mondo, ma dall'altra anche della nostra incapacità di categorizzare, di dominare quella molteplicità.
Potremmo quindi prendere la terza critica e usarla come ponte tra le “due culture” come tratteggiate da C. P. Snow, quella scientifica e quella umanistico-letteraria?
Mi piace pensare di sì. “Ponte” peraltro è il termine che Kant stesso utilizza nell'introduzione della terza critica, sostenendo proprio che c'è bisogno di creare un ponte tra i due domini della ragione, il dominio della natura e il dominio della libertà.
Kant ovviamente non ragiona in termini di discipline umanistiche e di discipline scientifiche, o diciamo più governate dalla scienza, ma in termini di esperienza sensibile e di dominio del sovrasensibile, ma questo non toglie la possibilità di utilizzare le idee kantiane in tal senso.
Come ad esempio?
Con un gruppo di colleghi abbiamo un gruppo di ricerca nelle cosiddette ‘environmental humanities’. L’idea è indagare come le discipline umanistiche possano contribuire alle questioni ambientali. In questo contesto sto provando a recuperare il pensiero kantiano intorno alla natura, per dare conto sia di come la natura possa essere trattata scientificamente, sia della nostra relazione complessa con la natura. La mia speranza è che Kant, e in generale la filosofia, possa contribuire mettendo in relazione la nostra esperienza quotidiana con la natura con le urgenze climatiche e i risultati della scienza.
Un modo per comprendere, per ricondurre alla nostra esperienza, le complessità della scienza del clima?
Sì. Soltanto pochi di noi hanno le competenze scientifiche per comprendere la questione climatica e più in generale quella ambientale. Io per prima non ho le competenze per descrivere scientificamente i fenomeni ai quali stiamo assistendo. Ma a me interessa la persona ordinaria, mi interessa vedere come ognuno di noi in modo universale – un termine decisamente fuori moda, ma decisamente kantiano – faccia esperienza della natura.
Le discipline umanistiche non possono né descrivere scientificamente le questioni ambientali, né fornire soluzioni. Ma, con i loro strumenti possono contribuire, ad esempio, nel formare una maggiore sensibilità verso le questioni ambientali, in maniera anche complessa. Pensiamo, ad esempio, al contributo che possono dare la produzione artistica o la letteratura.
Penso che Kant, e non solo lui naturalmente, possa ancora dare degli strumenti molto importanti dal punto di vista teorico. Ci invita, ad esempio, a mettere in questione il termine stesso di “natura”, perché noi siamo abituati a parlare di natura con grande disinvoltura, come se fosse una cosa che ci sta davanti. Ma “natura” è un concetto, è inevitabilmente qualcosa che noi abbiamo elaborato per poter dare un ordine e un nome a ciò che sta fuori di noi. La natura – e lo dice anche Goethe nella ‘Metamorfosi delle piante’ – non esiste: il che non vuol dire assumere una prospettiva di scetticismo rispetto al mondo che sta fuori di noi, ma capire che l'ordine che noi diamo al mondo naturale è una nostra proiezione.