Intervista alla filosofa della scienza Elena Gagliasso per parlare, in occasione del Darwin Day, di negazionismi scientifici vecchi e nuovi
Perché celebrare Charles Darwin a oltre duecento anni dalla sua nascita e a 165 dalla pubblicazione di ‘L’origine delle specie’? Darwin, riconosciuto come ‘il primo dei biologi’, con la sua teoria dell’evoluzione tramite variazione e selezione naturale offre una delle più importanti rivoluzioni scientifiche, ma non è solo per questo che il 12 febbraio di ogni anno si celebra il Darwin Day. Per comprendere le particolarità della teoria e perché ancora oggi solleva ostilità, ne parliamo con la filosofa della scienza Elena Gagliasso, docente all’Università La Sapienza di Roma, dove oggi alle 16 interverrà alla conferenza “La scienza e i negazionismi” con una relazione intitolata “Uno scetticismo malato: dall’evoluzionismo alla crisi climatica” (per seguire online l’incontro: https://web.uniroma1.it/dip_filosofia/en/node/7823).
C’è qualcosa che distingue la teoria dell’evoluzione da altre teorie scientifiche e che può aiutarci a capire come mai ancora oggi c’è chi la rifiuta?
C’è una diversità di metodo rispetto alle scienze per così dire “classiche”. La differenza maggiore è che qui non abbiamo a che fare con oggetti invarianti e anche quando si trattano eventi probabilistici, questi non riguardano mai enti identici tra di loro come le particelle di un gas. In biologia non esistono entità o processi identici e invarianti, e questo cambia l’intera prospettiva sul mondo vivente.
La biologia dell’evoluzione inoltre è una scienza che lavora con il passato: siamo in grado di indicare le dinamiche generali, dei possibili scenari futuri, ma non di affermare che questa data specie cambierà in questo preciso modo. Ciò è un problema visto che la previsione è uno degli aspetti importanti del metodo scientifico.
Questo rende l’evoluzionismo difficile da accettare?
Il principale ostacolo è rappresentato dalla casualità, dal ruolo del caso e dalla contingenza. Questo è l’indigeribile punto di frattura dell’evoluzionismo rispetto a tutte le interpretazioni della natura precedenti, e non parlo solo di quelle creazioniste. Le mutazioni, che rappresentano il motore dell’evoluzione, avvengono per caso, per grovigli di contingenze le estinzioni, ed è stato il caso con le contingenze a far sì che, 500 milioni di anni fa, dopo una delle quasi totali estinzioni di massa, da pochissimi sopravvissuti discendessero tutti i cordati e i vertebrati, i cui piani di base organici arrivano fino a noi.
Questo ruolo della casualità elimina ogni possibilità di far fronte al bisogno che spesso chiamo “il paradigma di rassicurazione umana”. Un’idea, un bisogno che precede qualunque ricerca scientifica: tu vai a cercare delle regolarità utili nel mondo esterno, è quello che facevano i cacciatori-raccoglitori, è quello che faceva Einstein. Perché, si spera, con le regolarità puoi prevedere delle quasi-certezze, e se puoi prevedere puoi anche controllare.
È possibile paragonare chi non accetta l’evoluzione darwiniana con chi nega la crisi climatica? Per i ‘negazionisti’ del cambiamento climatico giocano interessi economici oltre ai timori di un cambiamento nello stile di vita…
Sono due fenomeni in parte distinti: il negazionismo dell’evoluzione e il negazionismo climatico non hanno le stesse motivazioni.
Lo scetticismo verso il cambiamento climatico è, a livello scientifico, praticamente inesistente (resta all’1%), ma è molto forte a livello socio-culturale. È come se, negli ultimi anni, ci fossero piuttosto due frecce che vanno in direzioni inverse, con la comunità scientifica che ha ormai corroborato la responsabilità umana del cambiamento climatico e l’opinione pubblica che invece, presa da altri temi molto preoccupanti, dal Covid alle guerre alle conseguenze economiche di breve termine, vede il cambiamento climatico come un tema ansiogeno e divisivo.
Anche per il negazionismo climatico abbiamo, come per gli antievoluzionisti, un rassicurante mondo di riferimento che viene meno. Non tanto un mondo di sicurezze fissiste ideali come quello che incrina la teoria darwiniana, ma quello di concreti modi di vita e di fiducia in un futuro di progresso proprio dei modelli produttivi dei Paesi del Nord del mondo fino a metà ’900, con il consumo spensierato dell’energia fossile: un sentire che è stato recentemente letto come “petrol-nostalgia”.
Poi ci sono anche quelle specifiche “operazioni di controtendenza” da parte delle lobby dei combustibili fossili. Così come è successo in passato con sforzi e frodi scientifiche sponsorizzate dai produttori di tabacco per antagonizzarne i divieti al consumo. Ormai ci sono degli studi molto interessanti su tutto ciò, come quelli della storica della scienza Naomi Oreskes (vedi il libro ‘Mercanti di dubbi’ scritto con il collega Erik Conway).
È quello che lei definisce ‘scetticismo malato’, da contrapporre immagino a uno scetticismo sano.
Lo scetticismo sano è quello della scienza: il dubbio è un ingrediente fondamentale della ricerca scientifica, dalla rivoluzione scientifica in avanti, e fa sì che non ci si accontenti più dei saperi rivelati dalle Sacre Scritture e dalle autorità riconosciute, ma si avverta la necessità di “toccare con mano”. Quello scetticismo basato sulle regole del metodo permette alla comunità scientifica di progredire nella ricerca, di correggere gli errori, smascherare le frodi, ripetere gli esperimenti da controllare.
Questo è lo scetticismo metodologico della scienza. Quello che ho chiamato lo scetticismo malato, in qualche modo gli rifà il verso, deformandolo. Si appoggia al valore di fondo del ‘dubbio’ ma facendolo dilagare ideologicamente, porta a respingere tutto in blocco della scienza, non tiene conto che quello che afferma la scienza è, sì, sempre certamente provvisorio, è sì certamente migliorabile o in alcuni punti confutabile in futuro ma è giustificabile, corroborato da prove ed esperimenti, dunque richiede ascolto.
Ma come distinguere lo scetticismo sano da quello malato? Insomma, come può un non esperto orientarsi di fronte ad affermazioni contrastanti?
Le rispondo come avrebbe potuto rispondere lo storico della scienza ed epistemologo Thomas Kuhn: quello che fa fede non è lo scienziato singolo o anche tre, dieci, cento scienziati. Quello che giustifica la fiducia ben fondata è l’esistenza di una comunità scientifica coesa, densa di confronti corroborati su uno stesso tema da più vertici disciplinari e orientata in una specifica direzione nelle proposte che rivolge alle governance globali: lo vediamo con il riscaldamento globale e il suo peso nei Protocolli Cop. Fino a qualche decennio fa c’erano dubbi, quantomeno sull’origine umana del cambiamento climatico, poi la ricerca è andata avanti e il numero degli scienziati incerti o critici dell’impatto antropico sul clima si è sempre più ridotto a una percentuale minima. Che cosa significa, questo, al di là dei numeri? Significa che la massa critica di conoscenze si è trasformata ed è uno strumento decisivo da ascoltare e seguire in questa difficile fase ecologica ed economica.