In ricordo del pensatore italiano scomparso nei giorni scorsi
Milano, Pavia, Locarno: Salvatore Veca, deceduto lo scorso 7 ottobre all’età di 77 anni, era di casa in queste città (Fondazione Feltrinelli, Università pavese, Biblioteca cantonale). Come ha ricordato Marcello Ostinelli su questo giornale, Veca varcava volentieri il confine, ospite di istituzioni come il Premio Balzan e la Fondazione del Centenario della Banca della Svizzera italiana. Anche la Rsi lo invitava spesso, e se rifiutava era perché aveva impegni inderogabili. Assidua era la sua presenza ai seminari locarnesi, che il direttore della Biblioteca Antonio Spadafora organizzava regolarmente, patrocinato in queste iniziative dal sindaco di allora, Diego Scacchi. Correvano gli anni Ottanta e Novanta, prima e dopo la caduta della cortina di ferro. C’era aria di cambiamento, i castelli ideologici che fino ad allora avevano sorretto e giustificato l’ideologia marxista-leninista cadevano a pezzi. Veca, che pure al Marx scienziato aveva dedicato studi importanti, aveva compreso che la sinistra era ormai finita su un binario morto. Era urgente abbandonarlo per esplorare vie nuove, non più legate all’esperienza del «socialismo reale». Inutile schermirsi o svicolare: anche il Pci, il maggior partito comunista d’Occidente, avrebbe dovuto fare i conti fino in fondo con il suo passato filo-sovietico e liberarsi degli antichi cascami. Risalgono al 1986 i primi accorati appelli per indirizzare il partito verso un orizzonte riformista, anzi, come si disse allora, «migliorista», in cui rimeditare e riformulare sia i princìpi-guida della modernità (libertà, uguaglianza, fratellanza), sia il retaggio della socialdemocrazia.
L’impulso decisivo per mutare rotta proveniva dall’università di Harvard, da un accademico serissimo e schivo, John Rawls, autore fin dagli anni Cinquanta di una serie di lavori incentrati sulla giustizia distributiva. Qui non si parlava di dittatura del proletariato, di piani quinquennali, di partito dell’avanguardia operaia e di altre “mirabilia” retoriche, ma di un riassetto socio-economico fondato sulla redistribuzione più equa della ricchezza prodotta. Dal corposo trattato di Rawls, ‘Una teoria della giustizia’, pubblicato in inglese nel 1971 e tradotto in italiano a cura di Sebastiano Maffettone nel 1982, Veca ricavò i lineamenti per introdurre nella cultura politica italiana una riflessione, fino ad allora trascurata o scarsamente considerata, sull’uguaglianza complessa, sull’etica pubblica, sui diritti e l’utilità collettiva dentro il quadro di una società democratica e pluralistica. “Teoria della giustizia – scrisse Veca nel 1982 in un articolo pubblicato sul settimanale del Pci Rinascita – è un libro che affronta con rigore i problemi di sostanza e non solo sofisticate questioni di metodo, e in questo senso appartiene a quel significativo slittamento nella filosofia morale di stampo analitico da un livello del metodo a quello dell’oggetto”.
Non si poteva ignorare, d’altra parte, che l’opera di Rawls aveva già suscitato negli Stati Uniti un’ampia discussione, dividendo il campo in destra e sinistra. Della destra si fece portavoce Robert Nozick, con ‘Anarchia, stato e utopia’; della sinistra Michael Walzer, con ‘Sfere di giustizia’. Tutti contributi che hanno ridato slancio e ossigeno alla filosofia politica del Novecento, i cui riflessi sono tuttora visibili nelle riviste che si propongono di riscrivere il lessico politico.
Veca non è stato un semplice resocontista in lingua italiana di questo filone americano. Convinto che la cultura di sinistra dovesse svecchiarsi e accogliere nel suo grembo la ricerca d’oltre Atlantico, si adoperò affinché il Partito democratico rinnovasse il suo corredo teorico. Lo fece attraverso una lunga serie di libri, saggi e interventi, alcuni dei quali pubblicati anche nella Svizzera italiana dall’editore Giampiero Casagrande. Veca amava considerarsi un “filosofo pubblico”, erede della tradizione lombarda che aveva come epicentro la figura di Carlo Cattaneo.
Come detto, Veca fu spesso ospite della Biblioteca di Locarno, dei seminari che avevano come tema le nuove frontiere della politica e dell’etica. Tenne anche conferenze nei licei di Locarno e di Bellinzona, in compagnia di intellettuali come Remo Bodei, Luigi Bonanate, Luciano Canfora, Danilo Zolo, Michelangelo Bovero, Alfio Mastropaolo, Maurizio Viroli. Scomparso il pensatore e l’intellettuale militante, resta la sua opera, davvero copiosa e articolata (l’ultimo saggio, pubblicato da Egea, porta il titolo ‘Il mosaico della libertà. Perché la democrazia vale’). Ma assieme alla sua infaticabile attività di ispiratore di idee e progetti, di saggista e docente, rimarrà nella memoria come persona affabile e disponibile al dialogo.