Per L’immagine e la parola, 15 giovani registi hanno filmato il Ticino guidati dal regista ungherese
La prima cosa che vedo, raggiungendo il negozio dell’usato “Da Alma” a Locarno, è uno che viene imballato: lo rollano con lo scotch nella plastica a bolle lasciando fuori appena testa e piedi, tanto che gli impacchettatori per spostarlo devono sollevarlo di peso.
Siamo sul set di Dino, 27 anni, uno dei 15 giovani registi selezionati per realizzare un corto in Ticino nell’ambito del workshop di Béla Tarr ‘Mountains - Loneliness - Desire’, organizzato da L’immagine e la parola con la Ticino Film Commission e il Cisa. Il workshop mi aveva subito incuriosita, anche perché in passato mi ero imbarcata nel dilettantesco tentativo di creare una piccola tassonomia di film recenti girati nel nostro cantone, nella speranza che, capendo come venisse presentato sullo schermo, se ne potesse trarre qualche idea generale su questo territorio (in effetti non riesco a esimermi dal credere che “quello che gli altri vedono in noi di solito è la verità”).
In quell’occasione, però, avevo osservato più che altro che nella rappresentazione cinematografica del Ticino si consuma una strenua lotta sul campo di battaglia del cliché. Da una parte, i contingenti dei registi stranieri che, non sempre intenzionalmente, si ritrovano a perpetuare in forme diverse gli stereotipi: abbiamo Coppola che, per ‘Un’altra giovinezza’, preleva il motivo del sanatorio alpino dalla ‘Montagna incantata’ e lo trapianta in contesto extragrigionese; o Sorrentino che, ne ‘Le conseguenze dell’amore’, torna a battere il chiodo sui caveau e l’asettico ordine svizzero; o ancora film bollywoodiani, come ‘La verità negli occhi’ di Sarkar, che senza scrupolo alcuno attingono a piene mani a un immaginario da ente turistico. Dalla loro parte si schierano non di rado pure i registi svizzeri extraticinesi, che immortalando il Ticino tendono a privilegiare calura e verzura locale, come testimoniano ad esempio il ‘Rider Jack’ di Lüscher o i ‘Vecchi pazzi’ di Boss.
Contro tutti loro militano, con qualche diserzione, i ticinesi (genuini o acquisiti), che contrastano le sventagliate di stereotipi con film che danno una rappresentazione più quotidiana e familiare del cantone, mostrando che qui si può anche lavorare, deprimersi, gioire e morire, e tutto questo senza inquadrare nemmeno una palma (da ‘Matlosa’ di Hermann a ‘Tutti giù’ di Castelli a ‘Sinestesia’ di Bernasconi e così via). Ma il loro schieramento resta ancora troppo debole e poco numeroso per contrastare efficacemente gli oppositori.
Certo, si potrebbe sempre ipotizzare che, se i cliché pervadono tanto lo sguardo sul cantone, forse è perché contengono qualcosa di vero. Ma l’idea che i cliché contengano una verità non è anch’essa un cliché? E se lo è, questo non la rende tanto logora da far sì che, sebbene contenga una verità, ribadirla sia superfluo?
Speravo quindi che il workshop mi fornisse qualche elemento supplementare per la mia indagine. Tanto più che Tarr, come ha ribadito durante la sua masterclass a L’immagine e la parola, considera la location “una protagonista: ha una faccia, un senso”. Già il titolo del laboratorio era promettente, con il suo presentare il cantone come luogo sì di ‘Mountains’, ma anche di ‘Loneliness’ e ‘Desire’. Tuttavia, un po’ per la soggezione che mi ispirava la nera figura del regista, un po’ per l’impossibilità di tallonare il gruppo per tutta la durata dei lavori, di esplicite dichiarazioni tarriane sul Ticino non sono riuscita a registrarne. Quel che ho potuto capire un pelo meglio, semmai, è il ruolo che il caso gioca nel cinema in generale e nella scelta delle location in particolare – soprattutto se le tempistiche sono serrate come in questo progetto, con ogni partecipante che aveva a disposizione un solo giorno per le riprese del proprio corto, aiutato dai compagni di ventura e da comparse raccattate dagli organizzatori.
Primo giorno. Zhannat, kazaka, spiega che vuole raccontare la storia di un angelo della montagna, naturalmente su sfondo alpino. Una settimana dopo la trovo a girare nelle cucine del PalaCinema, sconfitta dal meteo indisponente della Val Bavona. Più fortunato il suo collega americano, giunto – mi racconta una collaboratrice della Ticino Film Commission – con la granitica certezza di girare a Corippo, come in effetti ha fatto (trionfo per le ‘Mountains’).
In cucina, la regista riprende un’attrice e due workshopiste intente a cucinare: hanno la consegna di parlare di orgasmi mentre tritano capperi. Una delle interpreti occasionali mi spiega che le loro parole verranno tagliate, ma per Zhannat è importante che si sentano coinvolte in una conversazione sul tema che è al centro del film: ed ecco il ‘Desire’. Se poi ha chiesto loro di cucinare – e non di fingere di cucinare –, è in osservanza di uno dei comandamenti tarriani enumerati durante la masterclass: “Se vuoi che una situazione sembri normale, devi mettere gli attori in una situazione normale, dove devono solo essere, non recitare”.
Per quanto riguarda il proprio progetto, la comparsa mi spiega che è la storia di un’anziana che vive sola in una vecchia casa (‘Loneliness’); la Film Commission le ha procurato una villetta congruamente decrepita, ma la mobilia era di una giovane inquilina. Solo con un raid arredamentale nei negozi di Locarno è riuscita a farsi prestare oggetti più consoni alla sua protagonista.
In tutto questo, Tarr si aggira per i set, borbottando “What are you doing?” e ingaggiandosi in fitte conversazioni con i registi, che loro definiscono molto fruttuose – naturalmente non oso origliare.
Quel che è nato da queste giornate concitate lo vedremo al Locarno Film Festival, e allora si potrà, magari, tornare a riflettere sul Ticino di celluloide. Per ora, quel che posso testimoniare è solo una breve epifania sul meccanismo del cinema, palesatasi mentre stazionavo sul marciapiede di fronte a “Da Alma”.
Imballato il suo attore, Dino ha battuto le mani a mo’ di ciac; ed ecco che, come quando, immersa un’asola nell’acqua saponata, soffiando se ne fa tremolare al bordo una bolla, così, accendendo la telecamera, la scena è stata inglobata in una sfera separata dal tempo reale, dallo spazio reale. Mi è tornato in mente un pezzo di ‘Band à part’ in cui i personaggi si mettono a contare i secondi, facendo coincidere per pochi attimi il loro tempo narrato con il nostro tempo di spettatori. Lì l’impressione è di vedere il reale insinuarsi nella finzione; qui, invece, era come se, nel traffico di via Cappuccini, d’un tratto si fosse schiusa una storia, e quasi pareva possibile caderci dentro.