laR+ Locarno Film Festival

Parlare di Gaza, senza urlare

Intervista a Maha Haj, regista palestinese residente in Israele, premiata al Festival di Locarno per il suo cortometraggio ‘Upshot’

(Ti-Press)
20 agosto 2024
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È stato uno dei momenti forti della cerimonia di premiazione del Locarno Film Festival, il breve discorso della regista palestinese di cittadinanza israeliana Maha Haj. Del resto il suo cortometraggio, ‘Upshot’, era a sua volta uno dei più forti visti nella sezione dei Pardi di domani, dove lo ha presentato nel concorso per i Corti d’autore.

Nel ringraziare per il premio ricevuto, l’autrice di ‘Personal Affairs’ e ‘Mediterranea Fever’ ha detto che bambine e bambini di Gaza meritano di giocare, di andare a scuola, di suonare uno strumento o di leggere libri, meritano di crescere così da seppellire i propri genitori quando questi moriranno di vecchiaia «e non il contrario». Altrimenti, ha proseguito con un piccolo spoiler del suo cortometraggio, «avranno una vita immaginata come quella del mio film: non vogliamo inventare storie alternative, vogliamo poter assistere alla loro vita vera». Tutto questo Maha Haj lo ha detto con voce emozionata ma calma, senza urlare. Come non urla ‘Upshot’, che significa “l’esito”, “il risultato” che racconta la monotona vita di una anziana coppia di coniugi: lei si occupa della casa, lui del campo di ulivi che circonda l’isolato casolare in cui trascorrono ripetitivamente le giornate; solo durante i pasti i due parlano, scambiandosi notizie sui figli ormai cresciuti e commentando le loro scelte di vita. Capiamo, grazie al notevole lavoro dei due attori Mohammad Bakri e Areen Omari, che qualcosa non va. È un film sul dolore di chi resta, ma anche «un film sulla narrazione, sul potere dell’arte e della letteratura di inventare storie» ci ha spiegato la regista.

«Le riprese – ha aggiunto – sono state realizzate a gennaio, ma il film era stato scritto prima del 7 ottobre e non c’è stato bisogno di cambiare nulla». Perché quello che è successo a Gaza in seguito agli attacchi di Hamas «è quello che, su scala più piccola, avviene da anni, in particolare dal 2008: l’idea del mio film è appunto come fare a superare un tale dolore, una tale sofferenza».

Che cosa prova come regista palestinese che vive in Israele? «La mia famiglia è di Nazareth, dove sono nata, e attualmente vivo a Haifa. Le mie emozioni mentre giravo il film? Ho sempre seguito le notizie, le tragedie che arrivavano da Gaza, o dalla Cisgiordania e in ogni Paese che conosce l’oppressione, non solo quella palestinese. Quello che mi sono sempre chiesta è come fanno le persone ad andare avanti dopo aver vissuto queste orribili tragedie». Il tema di ‘Upshot’, quello della sofferenza di chi resta, «non è arrivato all’improvviso, è una cosa sulla quale rifletto spesso ma la storia del film è arrivata così, già completa, un giorno mentre guidavo verso sud. Spesso le idee fanno così…».

Le riprese sono durate pochi giorni, appena cinque. «Faccio sempre delle prove con gli attori, in modo da arrivare sul set pronti: loro sanno esattamente cosa voglio e io so esattamente quali sono i loro bisogni perché abbiamo già costruito insieme i personaggi».

Marito e moglie si parlano unicamente durante i pasti, con il silenzio del resto della giornata messo in evidenza dalla mancanza di musiche, utilizzate solo nel finale, al momento della rivelazione per mano di un giornalista che arriva a rompere il loro isolamento. «Durante il giorno, mentre lui lavora la terra e lei si occupa della casa, ognuno di loro è come rinchiuso nella propria prigione di solitudine e di dolore. In questa routine quotidiana, che va avanti da venti o trent’anni chi lo sa, si siedono a tavola per mangiare e parlare: parlano dei loro figli, si raccontano cosa hanno fatto in modo del tutto normale e lo fanno di fronte al cibo perché il cibo è simbolo di vita, il cibo nutre sia il corpo sia l’anima».

Quello che rimane, il risultato, è quindi solo il dolore? O è possibile che l’esito, l’upshot, sia la pace, interiore e anche esteriore? «Per i due personaggi del film non penso che sia possibile raggiungere la pace, fare pace con l’idea di quello che è accaduto. La mia idea, quando ho deciso il titolo, è che un giorno, speriamo il più presto possibile, tutto questo finirà, le persone continueranno a vivere la propria vita, forse Gaza sarà ricostruita e diventerà una città normale, una città dove poter vivere, ma l’anima e il cuore di queste persone rimarranno per sempre feriti e niente li potrà guarire».

Chiudiamo l’incontro chiedendo alla regista se pensa che il suo cortometraggio sarà proiettato in Israele. «No, non credo ma non è neanche il mio obiettivo: questo mio lavoro è a disposizione, si rivolge a ogni Paese e a ogni persona che voglia vederlo». Sarebbe utopico pensare che un film possa cambiare qualcosa, ma per Maha Haj «è un modo per cercare di capire, per cercare di comprendere senza gridare, senza urlare o sbattere i fatti in faccia agli altri». Una cosa di cui c’è bisogno.

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