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‘Fekete Pont’, una lezione che riguarda tutti noi

Relazioni umane, rapporto con il potere, assenza di reale ascolto. Balint Szimer gira il film interamente in una scuola di Budapest

13 agosto 2024
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Una finestra si stacca improvvisamente da un edificio fatiscente, si infrange al suolo e sembra che a nessuno interessi sistemarla. C’è una scuola che va a pezzi, che si prova ad aggiustare con pochi mezzi e tanta burocrazia. C’è tanta omertà, convenienza, violenza. C’è un sistema educativo oppressivo, un’organizzazione ingiusta dentro la quale cercano di sopravvivere alunni e maestri, come possono. ‘Fekete pont’ (Lesson learned) del regista ungherese Balint Szimer presentato nel concorso Cineasti del Presente parla di tutto questo. Palko è appena arrivato a Budapest e sta per iniziare il quinto anno di elementari in una nuova scuola, dove dovrà affrontare esclusione e abuso d’autorità. Nella stessa scuola una giovane insegnante, Juci, tenta di uscire da un sistema cieco e severo adottando approcci pedagogici a vantaggio dell’ascolto dei ragazzi.

È difficile farsi strada in un mondo così, è difficile sopravvivere alle leggi del potere e della massa, in una società egoista che censura sempre di più, che mina la libertà degli individui, dove chi fa parte di una Ong viene licenziato e chi alza le mani sui ragazzini tacitamente difeso (e chi non può pagarsi la gita si arrangi).

Per fortuna non si può spegnere l’esile forza di una margherita selvatica che si fa strada tra le crepe dell’asfalto. Ma tutta la dolcezza della giovane insegnante non sarà abbastanza per cambiare il mondo, così come gli occhioni di un ragazzino triste non potranno creare quel reale contatto che serve in una società di individui ciechi.

La fotografia è bellissima, in questa pellicola che si svolge interamente in una scuola di Budapest, dove i muri tremano quando le orde di bambini si riversano fuori dalle aule, i bidelli sono cocciuti automi al servizio delle regole, i gatti non sopravvivono. I colori vividi e puri dell’infanzia vengono costretti a recite monocromo, i giochi innocenti dei bambini appesantiti. La drammaturgia è perfetta, il tocco delicato va a mostrare un mondo meno diverso dal nostro di quanto crediamo. Quante volte capita che il luogo dove cresciamo le menti di domani sia corrotto da meschinità e comoda accondiscendenza? Nel raccontare la situazione a Budapest questo film dice delle relazioni umane, del rapporto con il potere, dell’assenza di reale ascolto di un mondo in cui, ebbene sì, ci concerne tutti.

Dove quando qualcuno si arrampica su una pianta perché non sa più come parlare, invece di salire con lui si preferisce fare a pezzi l’albero.

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