Il riferimento scientifico è al suo romanzo, agli anni vissuti di fianco all’acceleratore di particelle e a un 2024 esplosivo. L’attrice si racconta
Guidando verso la uptown Locarno, là dove l’attrice alloggia, passiamo davanti al manifesto della discordia. Visto dal vivo, sul posto, il leopardo di Annie Leibovitz in riva al lago, col sederotto e la testa piccola, comincia a farci tenerezza. Succede come con certi cantanti che spostano gli accenti alle parole, accenti che erano lì da sempre. Sono modifiche che accetti per sfinimento, per quella stessa rassegnazione che ci porta ad ascoltare, per esempio, le ninnenanne e le chanson d’amour di Carla Bruni autoconvincendoci che alla fine non sono poi così male. Guidiamo sulle note di ‘En bas de chez moi’, un disco di pop francese assai ben suonato e cantato, uscito nel 2016 e dopo il quale – citando un film della Piazza – ‘le déluge’. Nel senso che la cantante, Irène Jacob in una delle molteplici sue vesti, pur continuando a cantare, di dischi da solista non ne ha incisi più.
L’attrice franco-svizzera, a Locarno per ritirare il Leopard Club Award, è felice di sapere che per noi lei è l’antidoto all’ex première dame con la chitarra a tracolla, e che quel disco e anche il primo, ‘Je sais nager’, incisi insieme al fratello chitarrista Francis, meriterebbero un seguito. «La musica nella mia vita c’è da sempre, amo quei due dischi ma non ne farò più. Francis vive a New York, dai tempi del Covid non siamo più riusciti a fare altre cose. Ora lavoro con Keren Ann (50enne cantautrice israeliana, ndr), ma quando c’è un progetto musicale io ci sono sempre. La musica è universale, ha un vocabolario non razionale, tocca le anime delle persone immediatamente ed è per me un’ottima preparazione prima di andare sul set. Resto comunque orgogliosa di quanto fatto insieme al mio fratellone».
Chiuso il capitolo dischi, si apre quello cinematografico che, gira e rigira, la porta – trascinatavi in pressoché tutte le interviste – dalle parti di Krzysztof Kieślowski (1941-1996) per ‘La doppia vita di Veronica’ (1991), Migliore attrice a Cannes, ma soprattutto per ‘Tre colori – Film rosso’ (1994), che il GranRex proietterà oggi alle 17, introdotto da lei in prima persona.
«Quando ti premiano ti chiedi sempre se non abbiano sbagliato persona, se sei legittimata a ritirarlo, se sia o meno il momento di ricevere un premio come questo, che riguarda il tempo», spiega Irène. «È vero, sono nel cinema da 35 anni, è una specie di matrimonio possessivo che richiede tempo e spazio in una famiglia nella quale mio marito è un attore e i miei due figli anche. Posso garantire che casa mia è decisamente affollata». Dice di non avere ancora pienamente realizzato l’award, ma che ha voluto raggiungere il Canton Ticino insieme al figlio, in auto, passando per il Vallese, in tutta tranquillità, parlando e scherzando e guardando film nella Piazza Grande, là dove fu per ‘Tre colori- Film rosso’ e dove ieri ha visto ‘Reinas’. A Locarno, per la precisione, era stata anche da giurata.
«Sono passati 35 anni, spero ne passino altrettanti. Serve tanta immaginazione per trasformarsi, non puoi tornare come quella che eri». Poche ore prima di questa intervista, dice, si è ricordata di quando Jean-Louis Trintignant, in ‘Tre colori – Film rosso’, pronuncia la frase “Ti ho sognata, avevi cinquant’anni”, e lei gli chiedeva “e cosa succedeva?”, e lui “sorridevi ed eri felice”. «Dopo quel film non rividi Trintignant per tanto tempo, ma otto anni fa sono stata a casa sua, nel Sud della Francia, e lui è tornato su quella frase. “Ora ne hai davvero cinquanta”, mi ha detto, e io ho pensato a come, nei giorni del film, il mio immaginarmi a cinquant’anni mi portasse a pensare a un altro mondo. Il tempo è qualcosa di veramente strano: sei come un albero, cresci in una direzione, poi in un’altra, cerchi la luce e l’ombra, sempre provando ad assecondare la trasformazione. Tornare qui mi fa pensare a questo, più che ai film, e a come si vive per essere un attrice». E quello di attrice «è un mestiere che non puoi fare da sola, perché serve guardare qualcuno negli occhi, e nel cinema lo sguardo è fondamentale. Ogni regista ne ha uno tutto suo, e dal modo in cui ti guarda può cambiare il tuo modo di recitare. Gli astrofisici dicono che anche la minima particella nel cielo reagisce al fatto che tu la guardi oppure no». Ma sugli astrofisici torneremo.
“Due interpretazioni hanno acceso i riflettori su Irène Jacob”, le sopraccitate, “fruttandole numerose offerte da Hollywood e l’imbarazzo della scelta tra i migliori ruoli del cinema europeo”. Occasioni di fronte alle quali l’attrice “ha preferito privilegiare i propri tempi e le proprie condizioni, rallentando il passo e selezionando attentamente i suoi ruoli”. Parole di Giona A. Nazzaro dalla motivazione del Leopard Award. «Ho seguito sempre la mia intuizione», commenta l’attrice, anche perché ai miei tempi non ho mai avuto grandi agenti. A volte mi sono sbagliata, non ho scelto le persone giuste, ma mi sono fidata delle sensazioni. Ho sempre preferito i lavori avventurosi: a teatro amo le nuove pièce, al cinema i film che mi sorprendono, come l’immagine del leopardo (ruggisce, ndr), viva, aggressiva, selvaggia, stimolante». Cita il recente lungo viaggio in Cambogia per lavorare con Rithy Pan in ‘Melting with Pol Pot’, film ispirato dall’intervista della giornalista Elisabeth Becker al dittatore, da questi richiesta nel bel mezzo del genocidio cambogiano di cinquant’anni fa.
‘Melting with Pol Pot’ è uno di più capitoli che fanno del 2024 di Irène Jacob – da Berlino a Cannes a Locarno a Venezia, dove sarà in ‘House’ di Amos Gitai – un anno da ‘Big Bang’, come da titolo del suo romanzo del 2019 ma anche termine scientifico che ci riporta ai giorni ginevrini dell’attrice, nata da padre fisico al Cern di Ginevra, città nella quale è cresciuta. «Vivevo proprio vicino all’acceleratore di particelle. La teoria del Big Bang era già stata confermata, i fisici erano eccitati, i premi Nobel venivano a chiedere cosa ci fosse prima. Sono sempre stata impressionata dagli scienziati, perché sanno esattamente quello che sanno e quel che non sanno, non c’è una sola professione al mondo che viva in questa chiarezza pur conoscendo solo il 5 per cento dei segreti dell’universo. Ho ritrovato questo atteggiamento in alcuni registi come Kieślowski: sosteneva che quel che sappiamo è molto piccolo, quindi preferiva andare verso quel che non conosceva, approcciandolo con curiosità, fascinazione, divertimento. In fondo siamo parte di un universo che è un mistero e il mistero è un dono, ecco perché nel mio lavoro amo registi o sceneggiatori disposti a considerarlo. Come puoi capire la vita razionalmente? La vita non è razionale».
Irène se n’è andata da Ginevra che aveva 18 anni. Tornarci oggi, dove ancora vive sua madre, le fa capire di avere anche qualità svizzere. «E poi sono la madrina di un laboratorio francese di astrofisica, continuo a sentirmi vicina agli scienziati anche se non sono mai stata portata per la scienza. Amo il modo in cui parlano, quelle loro metafore immediatamente comprensibili».
Oltre all’attrice, alla cantante, alla scrittrice, c’è anche una Irène Jacob presidente dell’Institut Lumière di Lione, succeduta nel 2021 a Bertrand Tavernier, morto nel marzo di quello stesso anno. È attraverso questo incarico che si sente di poter spiegare come è cambiato il cinema nel tempo.
«L’Institut Lumière, così come Locarno, ha un suo festival. Come accade da voi, siamo coinvolti nella diffusione del cinema a un pubblico sempre più cinefilo, almeno a Lione, persone che sono in grado di resistere a ogni criterio commerciale che regola questa attività e tante altre. Festival come Locarno e Institut Lumière credono che il cinema non sia solo un prodotto: il cinema è le storie che racconta, che mette in condivisione sopra il grande schermo; il cinema è accettare che insieme alla scelta personale concessa da una piattaforma si possa essere introdotti a un nuovo tipo di cinema, da festival che hanno archivi, persone in grado di presentare i film, di organizzare incontri con registi e attori per nuovi modi di raccontare il presente. Abbiamo nuove sfide, non solo nel cinema ma nelle nostre vite: il digitale, l’Intelligenza artificiale. È la stessa sfida che ha portato i pittori ad avere paura dei fotografi, i fotografi ad avere paura del cinema e il cinema della televisione». Sono sfide, non è la fine del cinema. «È sempre la questione dell’albero: questa arte sta cercando una propria direzione, una nuova luce. La prova sta in Piazza grande con 8mila persone, o a Lione con 5mila, tutte di fronte a Buster Keaton a chiedersi chi diavolo fosse quel tizio…».
Nemo è la Svizzera che ha sbancato l’Eurovision Song Contest di Malmö. L’artista di Bienne si esibirà questa sera in Rotonda dopo Ermal Meta. La Piazza Grande apre alle 21.30 con ‘Mexico 86’ di César Díaz, storia di una madre e attivista guatemalteca che si batte contro la corrotta dittatura militare. A seguire, ‘Sew Torn’ di Freddy Macdonald, storia della Sarta Mobile, che lotta per mantenere in vita la sua attività. Prima delle proiezioni, la consegna del Pardo alla Carriera all’attore indiano Shah Rukh Khan.
Domani alle 13, al Forum @ Spazio Cinema, l’attesa conversazione con il regista Alfonso Cuarón, che più tardi, in Piazza Grande, ritirerà il Lifetime Achievement Award. Il film della serata è ‘The Seed of the Sacred Fig’ del regista iraniano in esilio Mohammad Rasoulof.
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