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La ricerca del proprio Paradiso finisce nell’Antinferno

‘Il Paradiso di Diane’, di Carmen Jaquier e Jan Gassmann, si aggiunge alle note positive del cinema svizzero, forse un po’ troppo timidamente

11 agosto 2024
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La possibilità crescente che ha ogni individuo di emergere e distinguersi dalla massa ci ha forse resi sempre più egocentrici e fragili, sensibili alla messa in discussione del più piccolo difetto della nostra identità o aspetto fisico. Quesiti per sociologi e storici, tuttavia rimane quella contraddizione moderna del volere più libertà e privacy, quindi poter giudicare senza freni, senza essere a propria volta giudicati troppo. Stringendo il campo, cosa siamo disposti ad accettare per giustificare un comportamento e non riconoscerlo come sbagliato, nocivo, o pericoloso? L’etica e la morale sono concetti sempre più soggettivi, abbandonando talvolta la logica per sostituirla con il diritto, sacrosanto, di esprimere la propria opinione a priori. “Il Paradiso di Diane”, di Carmen Jaquier e Jan Gassmann, riesce a generare uno strano paradosso dolceamaro: un film scorrevole, piacevole da guardare e che suscita interesse nella sua risoluzione, quindi si infrange sul suo stesso messaggio di fondo, forse troppo bramoso di mantenere la sospensione del giudizio a tutti i costi, che risulta dunque più simile a una forma di ignavia.

Diane è una neomamma crollata emotivamente, che scappa in autobus in piena notte, lasciandosi alle spalle il premuroso marito Martin e la figlia, ancora senza nome. Come in uno stato di trance, la donna rifiuta la maternità: seppellisce il proprio cellulare, si disfa dei propri documenti e vive alla giornata, fino all’incontro per strada con Rose, un’anziana signora, ferita a una gamba. Dopo averla accompagnata a casa, Diane si addormenta in un pianerottolo e, al brusco risveglio da parte del custode, si finge una conoscente di Rose. Tra le due nasce una strana intesa madre-figlia e Diane, volente o nolente, è costretta a confrontarsi con se stessa e la propria responsabilità, lottando tra due decisioni che sembrano similmente autodistruttive.

Un film enigmatico e con molti pregi: la fotografia in controluce e abbagliante riflette bene gli stati emotivi, le interpretazioni sono molto credibili, il montaggio e la colonna sonora cooperano al supporto della suspense e del ritmo, la tematica che sta alla base crea discussione, eppure rimane quell’amarezza dovuta dal perbenismo forzato che traspare da una scelta insostenibile, quella di abbandonare il proprio neonato. Diane è una donna forte in superficie perché reprime le proprie emozioni, cercando lo svago o prendendosi cura di Rose, disposta a tutto per rifuggire il proprio ruolo materno, a cui non ha dato una vera possibilità. La sua ricerca identitaria coincide con l’impegolarsi in situazioni fuori dalla propria comfort zone, anche potenzialmente pericolose, trascurando tutti i suoi cari e, soprattutto, l’ammissione di avere un problema medico, legato alla depressione post-parto, destinato a risolversi tragicamente. Nel suo comportamento autodistruttivo cerca rifugio da un’anziana sconosciuta, rimasta sola e disprezzata dalla figlia Mona, a cui prova a sostituirsi, ignorando le riflessioni che potrebbe trarne e continuando imperterrita in questa strana fuga. “Accattone” incontra “Nymphomaniac” e il risultato è una sorta di “Oblomov” decisamente mancato, eppure persiste la qualità tecnica, il lavoro e la dedizione per questo film; il profondo senso di solitudine nell’inferno di Diane, nascosta nel trentesimo piano di un palazzo da cui scorgere un isolotto solitario, a forma di balena, lento nel suo inabissarsi, riflette ciò che di noi affiora e da cui nasce una divisione, ma smettendo di piangerci addosso e osservando al di sotto, coglieremmo il collegamento che ci lega nelle profondità.