In ‘Prisoners of Fate’, Mehdi Sahebi dirige un film struggente quanto necessario sui rifugiati, e colpisce davvero vicino, proprio dove fa male
Il dibattito in Svizzera riguardo l’immigrazione si dovrebbe sciogliere quando si realizza che le due singole scelte, per alcuni rifugiati, sono ottenere il visto oppure tornare nel proprio Paese, a morire. Questo il messaggio di ‘Prisoners of Fate’ di Mehdi Sahebi, un film profondo, che si concentra sul rapporto tra questi rifugiati mediorientali e il sistema con cui vengono accolti nel nostro Paese. Una burocrazia logorante da processo kafkiano li accompagna, scappati dai conflitti ricorrenti in Iran e Afghanistan, sono costretti a un calvario d’anni, in attesa di quelle carte che li salverebbero da un futuro di sofferenza e morte, colmi di speranze; c’è chi vorrebbe poter lavorare per aiutare a distanza la propria madre, chi abbracciare il proprio figlio, chi piange tutti i giorni i propri cari rimasti indietro e chi vorrebbe semplicemente trovare la pace. Tutti ridono, tutti piangono, tutti sperano e si disperano, ripetendo a loro stessi che le cose andranno meglio, ma legittimare la propria esistenza in quanto stranieri è molto più difficile di quanto si pensi e con questioni che nemmeno immaginiamo. Persone senza documenti, senza titoli di studio, oppure che hanno dovuto mentire riguardo alla propria nazionalità, per non subire persecuzioni, sono costrette anche all’illegalità come via d’uscita, rivelando ed esponendo il nostro sistema nei suoi difetti.
Questo è il caso per il disertore Mahmad, traumatizzato dalla guerra e costretto al rimpatrio quando, all’ennesimo rifiuto dalla Confederazione, è diventato un immigrato illegale e non ha trovato alternative se non quella di ritornare a casa e cercare di vivere sperdutamente. A nulla servono i consigli e le critiche, anche molto dure, del suo migliore amico, che lo dissuade dal ritorno e, come previsto, Mahmad viene picchiato, arrestato, imprigionato e derubato. Ritornato in Svizzera, è ancora prigioniero del suo destino, in attesa che il suo piccolo spazio nel mondo gli venga legittimato e concesso.
Fato diverso per una famiglia iraniana che, a causa della propria origine afghana, è costretta a lasciare indietro il piccolo Abolfazl, di soli sei anni, arrestato all’inizio del lungo e potenzialmente mortale viaggio per l’Europa. Dopo 3 anni di tentativi e con molte carte a disposizione, vengono costretti a tornare indietro in Iran, cosa comunque difficile, solo per riabbracciarlo e, fortunatamente, destino vuole che in quel periodo riescono a ottenere il visto per lui.
Nel documentario potente e dall’urgenza visibile, Mehdi Sahebi ha raccolto, dal 2015, queste testimonianze che colpiscono il cuore e non possono che far provare allo spettatore, soprattutto svizzero, un senso di vergogna, nella realizzazione della fortuna che abbiamo, di quanto diverse e facili siano le cose per noi e delle possibilità che potremmo offrire, ma che infine facciamo poco e con riluttanza. Storie di vita che vogliono farci comprendere e avvicinare a persone che vengono spesso fraintese e che sono in realtà molto più simili a noi, di quanto non pensiamo.