Quelli che vengono per Van De Sfroos (oh yeah), quelli che nelle ultime file ci vedono poco (oh yeah), quelli che in Venezuela... (oh yeah)
In cima agli incontri inevitabili ci sono quelli con Pinello, anche perché in questi giorni a Locarno Pinello lo trovi ovunque, entusiasta, furioso, infaticabile. Sabato sera in Rotonda l’ho visto spiegare a due lussemburghesi in cravatta fluo e infradito che il Festival è “morto, fottuto, kaputt”. E additava la massa di avventori ai bar, ai food truck, ai tavoli da fiera: “Li vedete i ticinesi? Escono in cerca di hamburger e birra d’accatto, non gliene fotte niente del Festival!”. Poi ha iniziato enumerare, con tanto di nome e cognome, lo sparuto drappello di autoctoni che negli anni avrebbe regolarmente ritrovato al Festival, espungendo dalla lista defunti e ricoverati in casa anziani. Sfoggiando il suo più persuasivo grammelot, Pinello ha così cercato di convincere i due che, 17 milioni o non 17 milioni, tocca a loro, toccherà al Lussemburgo salvare il Festival. Quando si è avviato verso la Piazza, apostrofando in modo colorito le persone in fila per entrare in Rotonda, mi ha visto, si è avvicinato e mi ha confidato esterrefatto di aver conosciuto tre autentici insegnanti ticinesi, venuti qui per sentire Van De Sfroos: “Vogliono l’open air! Come se Fellini, di fronte alla Ekberg nuda, avesse guardato l’accappatoio sull’appendino”.
L’ho rivisto a notte fonda, mentre si aggirava fra i vicoli della Città Vecchia in cerca del presidente, intenzionato chiedere conto di uno “scandalo intollerabile”. Pinello mi ha spiegato che, al solito sdegnando qualsivoglia privilegio, si è accomodato in una delle ultime file, confidando che il palo di tre metri circa, atto a reggere un faro che illuminava di tonalità bluastre il fondo della Piazza, sarebbe stato ingegnosamente rimosso all’inizio della proiezione. E invece no. Il palo è rimasto lì, “nel campo visivo di qualche centinaio di sfigati”, con il risultato a film già iniziato (“una Palma d’Oro!”) c’erano decine di anime in pena che vagavano con una sedia in cerca di una visuale decente. Trovandomi a condividere il suo disappunto, Pinello mi ha illustrato il perché, senza ombra di dubbio, “dietro tutto ciò si cela una riflessione razionale quanto indecente”. In breve, a suo dire “il demone sta nel marketing”, che abusa del femminismo come delle cartoline. Infatti un palo reggi-fari viene considerato più importante di due-trecento spettatori, in quanto contribuisce a veicolare a beneficio di fotografi e videomaker più o meno improvvisati l’immagine “della sala a cielo aperto, del salotto sotto le stelle, del suggestivo utero condiviso con altri ottomila partecipanti al rito”. Dopotutto, arguisce Pinello, “tu fesso grazie al palo vedi la cartolina, mica lo scazzo di quelli in fondo”.
Quando ieri l’ho visto in lacrime davanti al Kursaal, mi sono preparato a una nuova invettiva. Ma no, era felice. Pinello aveva appena assistito a documentario su un villaggio venezuelano in via di sparizione. L’idea che una domenica mattina d'estate, in una ridente cittadina europea, una sala si riempia per conoscere le disgrazie di qualche centinaio di venezuelani lo commuove profondamente. Sono questi i momenti in cui per Pinello tutto torna ad avere un senso: “Hasta la revolucion cultural siempre!”.