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La ‘nuova classicità’ di Ferruccio Busoni

Il senso storico da lui sviluppato evidenziava una tensione al di là del tempo. Un ricordo del compositore, a cent'anni dalla morte

Dante Michelangelo Benvenuto Ferruccio Busoni (Empoli, 1º aprile 1866 – Berlino, 27 luglio 1924)
(Wikipedia)
6 novembre 2024
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Un secolo fa, il 27 luglio 1924, moriva a Berlino il compositore Ferruccio Busoni, nato a Empoli il 1° aprile 1866. Egli si assunse il compito di illuminare il passaggio dall’Ottocento alla modernità nel nome della tradizione, senza con questo vivere il suo richiamo come zavorra imposta dal passato. Forse il correttivo “italiano” alla proiezione idealistica della sua formazione tedesca favorì il dosaggio dei fattori contrastanti della sua personalità artistica in un equilibrio che gli permise di aprire la prospettiva di una “nuova classicità” (Junge Klassizität). In verità l’esemplarità che egli indicò nei capisaldi della storia della musica non lo indusse mai a cedere alla tentazione del calco stilistico, del rifacimento in uno stato di subordinazione e di venerazione di un modello. Il senso storico da lui sviluppato evidenziava una tensione al di là del tempo, profondamente cosciente di nutrire i principî dello sviluppo verso traguardi futuri. L’universalità che egli intravvede in Mozart gli lascia riconoscere la sua immanenza: “Il suo palazzo è smisuratamente grande, ma egli non esce mai dalle sue mura. Attraverso le sue finestre vede la natura; la cornice delle finestre è anche cornice di quella”. Mozart dunque come musica a misura dell’esistente, capace di aspirare ad altezze rasentanti l’assoluto senza rinunciare a essere calata nella vita: “Non è demoniaco né trascendentale; il suo regno è di questa terra”.

Con tutta l’ammirazione per i maestri della musica strumentale, su questa linea egli non si pose mai il problema della dimensione “spuria” del teatro musicale. Anzi all’opera egli prefigurò il primato come “la forma più alta, e precisamente la forma unica e universale dell’espressione e del contenuto musicale”. La condizione era però che i “latini”, detentori delle risorse che hanno determinato il dominio di questo genere, vi innestassero quel “misticismo” che non avevano ancora saputo trovare: “Essi richiedono dal teatro la vita, come è, con ragione, richiesta dappertutto; ma purtroppo quella vita che essi stessi conducono. Essi incorrono nell’errore di metterla in musica”. Per cui, nella dimensione di conquistata astrazione che Busoni perseguì, maturò il principio del primato della forma intesa come mezzo per esorcizzare le spinte di un’esistenzialità episodica, secondo una concezione capace di distinguere in modo categorico l’arte dalla vita, dove la prima era affermata come un distillato di forma scevra da richiami a identità stilistiche predominanti. L’idea di “classicismo” a cui pervenne non voleva essere “un ritorno a un qualche linguaggio musicale del passato, a uno stile, a un processo evolutivo già compiuto e concluso, né a qualche forma o alle sue caratteristiche, ma significava modellare le conoscenze e i risultati tratti dalla evoluzione musicale in una forma loro conveniente, creata nello spirito del nostro tempo”.

Tale consapevolezza era maturata di fronte alla febbre del nuovo che all’inizio del secolo si manifestava in atteggiamenti esibiti di “protervia o ribellione, satira o stoltezza”. Percependo la china distruttiva verso cui si incamminavano gli spiriti più impegnati nella ricerca di vie emancipatorie, Busoni si fece interprete dell’esigenza di tenere a freno la tentazione di far seguire alla spinta radicale soluzioni negatorie dello statuto elevato dell’arte, da una parte compromettendola con un vissuto ridotto all’aneddotica e dall’altra con fughe in avanti improvvidamente indifferenti al principio del supremo equilibrio tramandato dai capolavori del passato. La sua lezione, anche se rimase essenzialmente dimostrativa come testimonianza di desiderio incompiuto, è esemplare in un contesto fortemente lacerato tra l’ambizione a esplorare nuovi orizzonti sulla spinta della logica onnivora sorta dal Romanticismo, e il rapporto con la tradizione nel momento in cui la compresenza sempre più vasta del patrimonio del passato accanto alle manifestazioni del presente consolidava modelli sui quali si basava la resistenza verso il nuovo. Di fronte al divorzio ormai evidente fra due linee di sviluppo sempre più inconciliabili Busoni fu colui che, almeno a livello teorico, seppe indicarne la possibilità d’integrazione nel concetto di “nuova classicità” intesa come “il dominio, il vaglio e lo sfruttamento di tutte le conquiste di esperienze precedenti: il racchiuderle in forme solide e belle”, dove la classicità non si presenta “come qualcosa che si rifà al passato”, a “forme morte”, ma nutrirà un’arte “allo stesso tempo vecchia e nuova”, compiuta in duplice senso: “Come perfezione e come compiutezza. Conclusione di tentativi precedenti”. La “nuova classicità”, anziché corrispondere a una formulazione stilistica, rappresenta un principio che, rifuggendo dalla tentazione di restaurare il passato attraverso le sue fattezze alleandosi a valori accertati, è in realtà orientato verso il nuovo. Quando egli parla di “distacco definitivo dal tematismo” e di “rinnovato impiego della melodia (non nel senso di motivo orecchiabile) quale dominatrice di tutte le voci, di tutti gli impulsi, supporto dell’idea e genitrice dell’armonia, in breve; della polifonia sviluppata (non complicata) al massimo”, l’obiettivo è chiaramente quello del superamento della concezione immedesimatoria che aveva trasformato l’espressione in un protocollo di pulsioni individuali non più condivise come manifestazione di civiltà ma come casi singoli, estremi, e come tali al limite della patologia. Con “il rinnegamento della sensualità e la rinuncia al soggettivismo” il cerchio del suo progetto si chiude nell’ambizione di raggiungere l’”oggettività”, una “musica al cento per cento, distillata, non mai nascosta sotto la maschera di figure e concetti presi a prestito da altri campi”. L’assolutezza di questo ideale, pur innervando il suo pensiero compositivo e capace di produrre alcuni esiti ragguardevoli, non bastava a tracciare una via di sviluppo concretamente riconoscibile. La sua lezione rimaneva sostanzialmente una lezione morale, stabilendo un principio al di là di tutte le possibili maniere in cui esso poteva essere incarnato, mentre il confronto con la sua esemplarità si rivelava difficilmente sostenibile al cospetto di opere dalla forma laboriosamente distillata e risultanti da un arduo livello di sintesi. Un’opera chiave quale la Fantasia contrappuntistica, passata al filtro di quattro versioni, proprio per essere il compimento di un sofferto processo di ricerca dell’ordine nella complessità di un patrimonio di sapienza compositiva, rimaneva un modello per sé, da ammirare nell’enormità del raggiungimento come lo erano l’Arte della fuga, l’Offerta musicale o le Variazioni Goldberg per Bach. Al di là del fatto di inquadrarsi nella tensione misticheggiante di ambizioni profetiche, il carattere di punto d’arrivo di un percorso concesso solo a spiriti iniziati le precludeva il fatto di costituire un modello generalizzabile.

Questo fatto dice molto del problema di una generazione spinta come non mai prima d’allora dalla necessità di emancipare l’espressione, lacerata tra lo strappo radicale e la restaurazione di epoche d’oro della cultura e dell’arte che lo storicismo aveva reso a portata di mano. Significativo è il giudizio riservato da Reynaldo Hahn a Berlioz:

Si Rameau avait vécu cent ans plus tard, il se fût appelé Berlioz. Mais il eût été un Berlioz plus noble; car ce qui manque à Berlioz, c’est la vrai noblesse. Noblesse de geste, noblesse de forme. Il est paysan du Danube, voilà pourquoi il est parfois si antipathique.

È paradossale che il musicista che più di ogni altro in Francia rappresentò nell’Ottocento la “musica dell’avvenire”, venga a perdere il suo attrait proprio nel momento in cui questo avvenire è chiamato ad attuarsi. Ed è altrettanto paradossale che un compositore come Hahn, esponente sofisticato della modernità alla ricerca della massima visibilità per il suo gusto avanzato, ignorasse il segno che la Rivoluzione francese aveva lasciato sulla stessa evoluzione dell’arte in termini di democratizzazione, non peritandosi di appellarsi all’ancien régime nel momento risolutivo in cui si riteneva necessaria una nuova rivoluzione. In verità la coscienza della necessità del cambiamento alla fine dell’Ottocento era maturata come reazione alle forme di omologazione subite dalla musica nel processo di allargamento dei modelli borghesi a tutta la società, in uno scatto tendente a superare tale stadio nel principio di un’avanguardia dal gusto estetico non necessariamente assimilabile al modello politico che la pretendeva anticipatrice di future generalizzazioni, ma, nel compiacimento di una condizione d’élite, richiamata al senso di primato concesso all’arte “reservata”, destinata ai dotti e agli intenditori, come iniziò a essere espressamente quella del Rinascimento.