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Un ricordo di Piero Bianconi

Tre anniversari in uno: i 125 anni dalla nascita, i 40 dalla morte, i 55 dall'uscita di ‘Albero genealogico’, l'opera sua più nota

Minusio, 1º giugno 1899 – Minusio, 5 giugno 1984
(Alberto Flammer – Fondo Bianconi all’Archivio di Stato di Bellinzona)
1 giugno 2024
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Il primo di giugno del 1899 nasceva Piero Bianconi. Da allora sono trascorsi centoventicinque anni giusti giusti. Quarant’anni esatti sono passati invece dalla morte, avvenuta tragicamente (è stato investito da una moto) ai primi di giugno del 1984. E cinquantacinque anni fa, nel 1969, è uscito ‘Albero genealogico’, l’opera sua più nota. Sono tre anniversari tondi tondi che invitano a ricordare lo scrittore, togliendo un po’ di polvere dalle fotografie sbianchite dal tempo.

Docente di francese e di storia dell’arte alla Scuola Normale di Locarno (l’attuale Dfa) e al Liceo di Lugano, qualche suo vecchio allievo ancora lo ricorda, Bianconi è il quinto e ultimo figlio di una famiglia di Mergoscia scesa alla Verbanella di Minusio, a mezzo tiro di schioppo dal lago Maggiore e dalle ville che pochi anni prima erano state abitate dall’anarchico russo Michail Bakunin e dal patriota piemontese Angelo Brofferio. La madre è sorella di emigranti in California, il padre è stato a sua volta negli States per quasi un ventennio. Curioso, dirà poi il figlio, che il genitore non racconti mai nulla della sua vita in America. Silenzi d’altri tempi, forse legati a un certo pudore, o a chissà a quale altro sentimento che gela la lingua in bocca.

Esperienze e amici in Italia

Allievo brillante, il giovane Piero decide di lasciare il ginnasio per andare a lavorare in un negozio di stoffe. Non saprà mai dire il perché di questa decisione tanto improvvida quanto inesplicabile (“ho sciupato gli anni più importanti”, confesserà poco prima di morire: “gli anni della formazione”). Soltanto più tardi torna a scuola, in una corsa contro il tempo. Ottiene il diploma di maestro, insegna alle scuole elementari, a Sant’Antonino, si iscrive all’università, a Friborgo, trascorre alcuni mesi in Italia, a Firenze e a Roma, “a sentire altre arie e altri odori”, come confesserà in una lettera a don Giusepe De Luca, sacerdote inquieto, straordinariamente vivace e colto, amico di papa Giovanni XXIII. In quei fecondi mesi italiani, che devono valere come un’illuminazione, Bianconi si sprovincializza, studiando, leggendo, imparando, visita armato di curiosità e di entusiasmo città e monumenti, allaccia numerose amicizie con studiosi e scrittori di primo piano, come lo storico dell’arte Roberto Longhi, forse il maggiore del Novecento, colui che ha tolto dal limbo e dai pregiudizi l’arte barocca e Caravaggio. Poi, dopo una breve parentesi a Berna, torna per sempre al suo paese, pur considerandolo “minima provincia d’una provincia”. Ma non riesce più a staccarsene. Come un’ostrica, scriverà, testardamente attaccata a un palo. Anche se alcune amicizie continueranno a sopravvivere: come quelle con illustri uomini di cultura del tempo, Piero Bargellini, politico e sindaco di Firenze all’epoca dell’alluvione, Emilio Cecchi, narratore raffinato, Giuseppe Prezzolini, Elio Vittorini, Italo Calvino, Giovanni Testori, Renato Guttuso, Vittorio Sereni, Piero Chiara. Con alcuni di loro continuerà a intrattenere rapporti epistolari.


Alberto Flammer – Fondo Bianconi all’Archivio di Stato di Bellinzona

Il traduttore e lo storico dell’arte

Bianconi è stato autore assai fecondo di libri in prosa, di traduzioni e di opere di storia dell’arte. Ancora oggi circolano, in Italia, regolarmente ristampate, anche se sono passati molti anni dalla loro prima uscita, varie sue traduzioni: dall’inglese, dal tedesco e soprattutto dal francese. Sono una trentina, in tutto. Particolarmente caro gli è stato un viaggiatore britannico passato dalle nostre parti verso la fine dell’Ottocento, il simpaticissimo Samuel Butler, che ha visitato la Leventina, la Mesolcina, il Mendrisiotto, il Locarnese e la Valmaggia. Davvero spassose sono le pagine dell’estroso forestiero: come quando, arrivato a Primadengo, non vede nessuno in giro ma poi scopre con grande divertimento, udendo strani fruscii, che la gente del paese è accavallata sui rami degli alberi a mangiare ciliegie, e sputa i noccioli sulla testa di chi passa. Dal tedesco Bianconi ha tradotto in italiano Goethe, per fare un solo nome. Mentre l’elenco degli scrittori voltati in italiano dal francese, per Rizzoli, Einaudi e Feltrinelli, è lungo e illustre: Voltaire, Diderot, Rousseau, Stendhal, Balzac, Baudelaire, Flaubert e altri ancora. Insomma, alcuni tra i più importanti autori del Settecento e dell’Ottocento transalpino. Questo la dice lunga sul lavoro assiduo di un uomo che, alla domanda: “Che cosa stai facendo?”, rispondeva spesso schermendosi: “Nulla di importante”.

Parecchi sono poi i libri dedicati all’arte figurativa. Vogliamo almeno ricordarne alcuni: su grandi pittori, antichi e moderni, come Lorenzo Lotto, Piero della Francesca, Brueghel, Grünewald, Correggio, Vallotton, su architetti come Francesco Borromini. Anche alcuni artisti locali vengono da lui sottratti alla dimenticanza: il valmaggese Giovanni Antonio Vanoni, per esempio, o il caravaggesco romano di origini asconesi Giovanni Serodine. Ma poi Bianconi, specie al tempo della seconda guerra, durante la chiusura dei confini, gira a piedi per il Cantone fotografando, inventariando e studiando l’arte popolare, sacra e profana, gli ex-voto, la pittura murale, l’architettura rustica e primitiva dei crotti e degli “sprügh” (o “splüi”), i manufatti più umili, specie quelli cimiteriali (croci di ferro, lapidi, tombe, ossari): cose di cui all’epoca nessun altro si occupava. È molto interessato all’arte barocca, che per lui è l’anima del Ticino, non meno che al lavoro di tanti abilissimi artigiani rimasti senza volto.


Alberto Flammer – Fondo Bianconi all’Archivio di Stato di Bellinzona

Emigrazione e letteratura

Molti sono anche i suoi libri in prosa, che si accompagnano a innumerevoli articoli di giornale e a collaborazioni alla Radio Monteceneri. Per parecchio tempo Bianconi è stato forse troppo “letterato”, cioè un esteta infatuato dal gusto per una scrittura colta e raffinata, come usava negli anni Trenta in Italia. È questo un settore in cui non ha avuto eguali nel Ticino, per costanza e bravura. Ma nel 1942, dopo avere girato il paese alla ricerca dei segni lasciati dall’uomo, nella natura, nei luoghi abitati o abbandonati, pubblica un breve scritto che andrebbe letto ancora oggi a scuola: “Umanità del Ticino”, dove mostra quanto l’uomo, non gli eroi celebrati dai libri, ma gente umile e ignota, abbia inciso, spesso bene e con grande rispetto, sul territorio. Lo scrittore raggiunge il suo culmine con un “romanzo”, ‘Albero genalogico’, il cui sottotitolo suona: ‘Cronache di emigranti’. Da un lato, basandosi sulle lettere e i documenti conservati in casa, fa la storia dei suoi parenti emigrati, in Francia, in Italia, in Australia, in California; dall’altro, osservando il comportamento dei suoi antenati, si sforza di capire, oramai ha settant’anni, le cause di quello che chiama il “peso tremendo dell’eredità” che le vicende familiari hanno lasciato, scrive, su “quel groviglio di stanchezza e di forza, di ardire e di pusillanimità, di cattiveria e di inerte bontà” che è il suo carattere.

Bianconi polemista

L’ultimo Bianconi è quello dell’occhio critico e della penna severa, che trova il suo punto più forte in un bel libro, le foto sono di Alberto Flammer, ‘Occhi sul Ticino’, uscito nel 1972. È una lettura insieme affettuosa e amara, a volte feroce, del proprio paese. Affettuosa perché ne ricorda i tratti migliori, come la capacità dell’uomo, nel corso dei secoli, di adattarsi alla natura, di convivere con essa, rispettandola, pur fra mille difficoltà, dovute alla durezza del territorio, alla povertà, alle tragedie quotidiane. Amara nel constatare, nel dopoguerra, la trasformazione rapida e inesorabile del Ticino, priva di ogni sentimento di rispetto e di pietà. Complici gli interessi economici sfrenati, da parte di politici, avvocati, imprenditori, avventurieri privi di scrupoli e di cultura, votati unicamente al tornaconto personale o delle consorterie di cui fanno parte. Erano, quelli, anni in cui si sentiva ancora il bisogno di protestare, manifestando il proprio disaccordo. Un altro libro da rileggere. Un “j’accuse” su cui, avendone la voglia, si potrebbe riflettere ancora oggi.

Croci di ciliegio e croci di noce

Cosa rimane di Piero Bianconi, scrittore eccellente e raffinato, uomo scettico (“vedo soltanto un lato, il più scuro, della realtà”, diceva di sé) e “groppo di contraddizioni”? Cosa sopravvive del suo lavoro, al di là delle traduzioni? È una domanda che possiamo farci, a quarant’anni dalla morte. Resta un insegnamento, un impegno a conoscere, un’apertura verso il mondo di cui la nostra provincia continua ad avere bisogno. Nel proprio studio lo scrittore teneva appeso un foglietto con una scritta, di sua mano: “L’uomo non è niente senza l’occasione”. Con questo voleva ricordare a se stesso, prima che agli altri, che molti suoi lavori, al di fuori della scuola, erano nati un po’ per caso, da incontri fortuiti, da stimoli esterni, fra amori e malumori. A inquietarlo, e a farlo sentire sempre più solo, negli ultimi anni di vita, era il sospetto di non appartenere a nessun mondo. Non più al passato dei suoi avi. E neanche al presente dei suoi figli. Immaginarsi il futuro… Di essere rimasto solo, insomma, come spesso succede ai vecchi. Forse anche per questo amava ripetere, parlando della vita dell’uomo e del suo destino: “Ognuno ha il proprio Calvario. “ Ciascuno di noi, sulle spalle, porta una croce, più o meno pesante.” “Di legno di ciliegio, qualcuno”. “Di noce, qualcun altro”.


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