Culture

Un Myanmar di piombo e bavagli, di nuovo

Dopo la breve parentesi di Aung San Suu Kyi, il Paese del Sudest asiatico è sprofondato di nuovo in un regime brutale. Una testimonianza

(Keystone)
21 ottobre 2022
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Novembre 2015. La notizia strappò per un attimo il velo delle nostre distrazioni occidentali: per la prima volta nella sua storia il remoto Myanmar – quella che una volta chiamavamo Birmania, Paese con una popolazione poco inferiore a quella italiana, ma spalmata su un territorio di foreste e montagne grande oltre il doppio – sceglieva la democrazia. Al governo andava Daw (‘zia’) Aung San Suu Kyi, coraggiosa e perseguitata dissidente, premio Nobel per la pace nel 1991.

La speranza nata nel Sudest asiatico durò poco più dell’attenzione internazionale. Il primo febbraio 2021, l’esercito si riprese il potere. Le proteste che ne seguirono, con centinaia di migliaia di persone in piazza a Yangon e altrove, conobbero un epilogo tanto scontato quanto tragico: arresti, sequestri, torture, stupri, omicidi. Internet rimase ‘spento’ per due mesi, i media indipendenti furono spazzati via e sul Myanmar tornò il silenzio. Ragione in più per parlarne di nuovo, come si farà oggi e domani al Film festival diritti umani di Lugano (vedi sotto).

Tra chi ha vissuto sulla sua pelle il ritorno al passato del Myanmar c’è una donna svizzera che chiameremo Chloé (il nome vero è un altro, ma non vuole altre rogne col regime). Chloé ha dovuto abbandonare i suoi affetti e il suo lavoro per tornare qui, fuggendo dalla stretta che la giunta impone non solo ai birmani, ma anche agli stranieri che stavano aiutando il Paese a riaprirsi al mondo. «Le prigioni sono piene zeppe» è la prima cosa che ci dice, per darci subito un’idea di quel che succede laggiù: «Il Paese sta tornando all’isolamento e alla dittatura che precedevano San Suu Kyi. Questo ci ha colto di sorpresa, ma bisogna pur ricordare che il Myanmar è stato sotto il giogo dei militari per settant’anni, un record paragonabile solo a quello nordcoreano. La storia si ripete, anche se non dobbiamo smettere di sperare che il futuro riporti nel Paese libertà e democrazia».

Di secondini, stupratori, killer

Dopo il golpe del 2021 i dimostranti sono stati uccisi a migliaia, incarcerati a decine di migliaia. A bilancio dell’anno scorso, Amnesty International riporta che "sono state segnalate torture diffuse sui detenuti. Il conflitto armato, che ha visto attacchi indiscriminati contro persone e obiettivi civili da parte dei militari, ha provocato lo sfollamento forzato di decine di migliaia di persone. Il numero di persone ancora sfollate per conflitti o violenze del passato era altrettanto alto. Coloro che vivevano nelle zone coinvolte nei conflitti armati non avevano servizi minimi e in alcune aree i militari hanno bloccato la consegna di aiuti umanitari. Donne e ragazze sono state sottoposte a violenza sessuale da parte dei militari. Decine di persone sono state condannate a morte dai tribunali militari in contumacia". Tra i condannati a morte anche bambini. Il 60% degli scolari non va più a scuola.

Chloé racconta che «la situazione dopo il golpe è degenerata in guerra civile, e in Stati come il Chin, vicino al Bangladesh, si è assistito a veri e propri genocidi. Nel frattempo, in molte regioni, numerose formazioni di guerriglieri – persone che hanno deciso d’imbracciare il fucile dopo le prime proteste, inclusi molti appartenenti alle 135 minoranze etniche del Paese – stanno combattendo contro l’esercito e contro altre milizie armate dal governo».

Mentre lo scontro si sposta in montagna, la popolazione urbana è stanca e intimidita: «All’inizio un sacco di persone, soprattutto giovani, aveva preso parte alle proteste contro il golpe e l’arresto di San Suu Kyi», ci spiega Chloé, «ma poi ha vinto la paura. D’altronde questa dittatura può essere considerata il più grande carceriere del mondo. Inoltre, controlli e censura sono ovunque: gli smartphone delle persone vengono regolarmente controllati nella miriade di checkpoint disseminati dappertutto. Le guardie vanno in cerca di tracce di attività ‘antigovernative’ non solo così, ma anche entrando nottetempo nelle case della gente». La giunta di Min Aung Hlaing ha modificato il codice penale per concedersi ogni sorta d’ispezione, sequestro, sorveglianza. I processi – serve specificarlo? – sono solo una messinscena.

La guerra delle comunicazioni

Descrivendo questa realtà di piombo e bavagli, Chloé sottolinea l’importanza delle comunicazioni e della tecnologia, sia come elemento di controllo, sia come speranza di affrancamento. «Abbiamo capito quanto le nuove tecnologie fossero importanti durante il primo ‘spegnimento’ di internet e delle reti telefoniche, quando per due mesi non si poteva fare nulla: qui in occidente non ci pensiamo più di tanto, ma non avere internet e telefono significa non poter sapere come stanno i tuoi cari, se siano ancora vivi, non poter gestire il tuo lavoro e le attività più elementari. Non puoi neppure prelevare da un bancomat. E anche quando la connessione è tornata, nuove disconnessioni a livello regionale sono state decise ogni volta che si trattava di nascondere le azioni militari più sanguinose».

Ora la maggior parte della popolazione può di nuovo usare computer e smartphone, «ma i media indipendenti sono stati ridotti al silenzio e tutte le conversazioni, tutti i messaggi possono essere intercettati, censurati, puniti. Anche le società di telefonia internazionali sono state costrette ad adeguarsi. È bello sapere che molti possono ancora trovare qualche accesso a informazioni dall’esterno – una possibilità che dovremmo tutti cercare di agevolare –, però i residenti non possono informare noi, e neppure comunicare liberamente tra loro. La speranza è che gli strumenti della tecnologia aiutino la popolazione ad aggirare almeno in parte questa forma di reclusione».

Il Paese-gulag

La resistenza militare è organizzata in diversi gruppi nazionali e regionali, impegnati a respingere il controllo governativo in gran parte dei distretti birmani. In una nazione in cui il governo è enorme e garantisce un impiego – sia pur mal pagato – alla maggior parte dei lavoratori, dal colletto bianco al contadino, «questi sono ancor più dipendenti dalla giunta militare. Anche sul lavoro, a pagare il prezzo peggiore sono coloro che hanno protestato o tentato di fuggire: spesso sono costretti a lavorare in fattorie organizzate un po’ come gulag, dove devono vivere sotto sorveglianza ininterrotta e sono sottoposti a uno sfruttamento massacrante. La minaccia di violenza e ritorsioni incombe sempre su di loro». Intanto il Paese, dopo i tentativi di riforma di San Suu Kyi, sta tornando a essere «un’economia completamente statalizzata, in cui i salari sono bassissimi mentre l’inflazione galoppa».

L’oggi 77enne San Suu Kyi – figlia di Aung San, considerato un eroe nazionale per il suo ruolo nell’indipendenza del Paese dalla Gran Bretagna, anno Domini 1947 – è salita al potere nel 2015 dopo decenni di opposizione dissidente. «Ha una forte personalità e la sua provenienza famigliare le conferisce un enorme potere simbolico», osserva Chloé. «Ha stretto relazioni con l’Australia, gli Usa e altri Paesi occidentali, per ottenere l’apertura economica e politica del Myanmar. Ma noi occidentali siamo stati forse troppo ottimisti nel prevedere cosa avrebbe potuto fare davvero in così poco tempo: con un vicepresidente ancora legato alla Cina e il 30% dei seggi parlamentari occupati dai militari – come pure alcuni ministeri chiave quali l’Interno, gli Esteri, la Difesa – sarebbe dovuto essere chiaro fin da subito che la posizione di San Suu Kyi era estremamente fragile. Purtroppo ce ne siamo dovuti accorgere molto presto». Per inciso, secondo numerosi osservatori fu proprio la sua debolezza politica che la costrinse a permettere all’esercito – e a negare pubblicamente – il genocidio dei Rohingya, la minoranza musulmana nello Stato del Rakhine, nel 2017.

Guardare avanti

Ora la ex Consigliera di Stato – questo il titolo ufficiale della presidente – è stata condannata a 26 anni di reclusione. Le accuse, ovviamente fasulle: incitazione alla sedizione, corruzione e violazione delle norme anti-Covid. Adesso si trova in isolamento, dopo che le sono stati revocati gli arresti domiciliari. Intanto la violenza continua e «il Paese», secondo Chloé, «è ancora in bilico: può scivolare ulteriormente verso il suo passato di chiusura e repressione, oppure trovare un modo per superarlo, per guardare avanti».

Per riuscirci, però, serve il sostegno internazionale, cosa difficile per un Paese pressoché assente dalle mappe mentali di molti. La Cina e la Russia sono piuttosto tolleranti verso i vizi d’un regime che è anche un partner commerciale, anche se talmente periferico che pure loro cercano di non compromettersi più di tanto: non vogliono impegolarsi nell’ennesima controversia internazionale. Quanto al resto del mondo, per Chloé «il rischio più grosso è proprio il silenzio», come quello dell’India e di molti stati dell’Asean (Associazione delle nazioni del Sudest asiatico).

Venendo all’occidente, per Chloé «ora la cosa più importante è che la comunità internazionale riconosca il governo in esilio come suo interlocutore ufficiale e come unico rappresentante legittimo del Paese, cosa che finora non è avvenuta», con l’eccezione di una risoluzione del Parlamento europeo. Il ‘governo ombra’ – noto anche come Governo di unità nazionale – è composto da ex legislatori e politici che sono riusciti a sfuggire alla stretta dell’esercito e si sono rifugiati all’estero. Tra le altre cose ha supportato la formazione della Forza di difesa nazionale che ora combatte contro l’esercito regolare, il cosiddetto Tatmadaw. «È importante che il Governo di unità nazionale possa parlare a nome del Paese», ribadisce Chloé, «e che il Myanmar si riapra al mondo e alla libertà».

Al cinema Corso

I ‘Diari del Myanmar’ interrogano l’Occidente

"Riuscite a sentirci?". ‘Myanmar Diaries’ finisce così, con questa angosciante voce fuoricampo. Si direbbe proprio questo, lo scopo principale del documentario premiato alla scorsa Berlinale, miracolosamente uscito dai confini del Paese: farsi sentire attraverso un collage di filmati degli scontri e della realtà birmana, intarsiati con passaggi più lirici, nati dall’immaginazione di dieci registi anonimi. Doloroso, ma anche trasognato e a tratti ironico, si tratta di uno dei pochi film che documentino quanto successo durante e dopo il golpe (l’unico altro esempio di questo tipo, per quel che ne sappiamo, è ‘Padauk: Myanmar Spring’ di Jeanne Marie Hallacy e Rares Michael Ghilezan). ‘Myanmar Diaries’ sarà proiettato al Cinema Corso oggi alle 13.30, nell’ambito del Film festival diritti umani a Lugano. Replica domani alle 17.30, sempre al Corso.