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‘Kabul prima del buio’, appunti di viaggio

Tra le pieghe del documentario con Philippe Blanc, che con Roberto Antonini ha raccontato per la Rsi la capitale afghana poco prima del ritorno dei talebani

‘Se bruciate i nostri libri, scriveremo sulla sabbia’ (nella foto, Habiba) - © Rsi
17 settembre 2021
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«Ci muovevamo in una città blindata, protetta dai muri di cemento armato e filo spinato, da militari e guardie armate, non solo dell’esercito, che presidiavano ogni obiettivo sensibile, dall’albergo al singolo ristorante. E le ambasciate, naturalmente. Nelle strade c’era il caos, il transito era vietato alle motorette per il rischio di attentati, quindi solo automobili. Solo Toyota Corolla, anche di forme leggermente diverse, forse perché fabbricate in Paesi diversi, indifferentemente con la guida a destra o a sinistra, ma sempre Corolla. In un’altra situazione emotiva avremmo potuto fare un gioco: passare tutta una mattina a vedere chi per primo avrebbe visto un modello che non fosse una Toyota Corolla. Magari sarebbe passato un Land Cruiser, che comunque è sempre Toyota. Con una Mitsubishi avrei vinto…».

È la parte meno impegnativa dei ricordi di Roberto Antonini e Philippe Blanc, riportati dal secondo dei due. ‘Kabul prima del buio’ è il documentario prodotto dalla Rsi di cui i due ticinesi sono autori, trasmesso da Falò lo scorso 9 settembre su La1; i francofoni lo avranno visto e ascoltato più comodamente mercoledì sera su Rts. In lingua italiana, ‘Kabul prima del buio’ è online sul sito della Rsi ed è un estratto umano dei mesi che hanno preceduto il ritorno in città dei talebani; è luglio 2021, la prima metà, le due settimane trascorse dalla squadra di Falò nella capitale afghana prima che l’ultimo soldato americano venisse immortalato in una di quelle foto che si dicono iconiche, ma che questa volta lo sono meno. «È il secondo lavoro insieme, per me e Roberto», racconta Blanc. «Nel 2018 andammo in Iraq, a Mosul, a un anno di distanza dalla liberazione della città dall’Isis. Ma sono state due cose molto diverse».

Montato da Andrea Levorato (con Blanc in ‘43. Il ponte spezzato’, pluripremiato reportage sul crollo del Ponte Morandi) e ‘suonato’ da Michele Vassalli, il documentario racconta la libertà di stampa che viaggia per Kabul in auto blindate, la vita al fronte dei giornalisti locali, per il 40% donne; racconta di Radio Arman Fm, la prima stazione radio commerciale della nazione, di Tolo News, emittente televisiva nata vent’anni fa in collaborazione con gli americani; ‘Kabul prima del buio’ è Alberto Cairo, fisioterapista direttore del centro ortopedico della Croce Rossa internazionale, le cui protesi fanno camminare l’Afghanistan; è l’ostetrica del reparto maternità di un ospedale di Médecins sans frontières, target di un assalto armato che a maggio non ebbe pietà di donne incinte, puerpere e neonati; ‘Kabul prima del buio’ è l’adolescente Habiba, racconto e colonna sonora, scampata al doppio attentato – una prima bomba destinata agli inermi, una seconda per i sopravvissuti e i soccorritori – che mesi fa uccise 85 sue coetanee poco fuori la sua scuola.


’Kabul prima del buio’ (© Rsi)

Quotidianità

Con lo stesso rispetto portato per Genova, e con quello col quale, insieme a Mario Casella, raccontò il lockdown in Svizzera (‘Pandemia’, febbraio 2021), Philippe Blanc, e così Antonini, maneggiano la questione afghana con misura, affinché il reportage, confrontato con l’orrore puro, non diventi altro o almeno resti tale senza diventare spettacolo. «Se mi chiedi dove questa esperienza è diversa dalle altre – dice Blanc – devo partire da come a Kabul accedevamo al nostro albergo, una trafila di porte blindate dentro mura di cemento armato, di perquisizioni dentro e sotto l’auto, di metal detector e guardie armate. Ecco, la differenza tra Kabul e le altre volte è stata il dover vivere qualcosa di così macchinoso e allucinante chiedendoti in che modo poterlo descrivere, perché quel piccolo transito è una delle situazioni sensibili che non si possono filmare, se non di nascosto e con il rischio di venire arrestati». Facendo paragoni: «A Mossul giravamo in una città rasa al suolo, emotivamente difficile da ritrarre, ma potevamo farlo; Kabul, al contrario, era solo apparentemente una città normale, con una sovrastruttura che quasi non potevi filmare». Logisticamente parlando, «rispetto a una zona di guerra, in cui sai dove metterti perché c’è un fronte, perché ci sono due eserciti contrapposti, e anche se sopra la tua testa passano missili, sei paradossalmente più al sicuro. Qui invece il nemico è invisibile». E la tensione sempre alta: «Era il nostro interprete a farci rientrare in auto, perché i tempi per lavorare sul posto sono sempre stati molto brevi. Solo lui poteva tradurre la tensione, sempre abbastanza costante, cosa che per loro è la quotidianità».

La quotidianità, appunto. «Tre, quattro attentati ogni giorno in una città abbastanza grande da farti dire “Beh, non capiterà proprio dove sono io!”», che in Afghanistan è un pensiero di comodo: «Durante una delle volte in cui siamo scesi sul terreno, entrando all’interno di un mercato per descrivere la vita anche al di là delle situazioni stabilite, un movimento strano di uno dei pick-up della polizia e le invettive degli agenti contro un’auto ci hanno costretti a lasciare il posto. Erano le 14.40: dieci minuti dopo abbiamo ricevuto un alert; alle 14.50 è esploso un ordigno che ha fatto cinque morti. La cosa strana è che quell’evento nemmeno è stato coperto dalla televisione». Perché cinque morti a Kabul non fanno più notizia.

Due giorni dopo l’attentato, l’interprete di Blanc e Antonini accompagnava i due reporter da un sarto che avrebbe cucito loro vestiti tradizionali afghani. «All’inizio ci è sembrato ridicolo, e invece è cambiato il nostro lavoro: passavamo inosservati, riuscivamo a lavorare con la percezione di non trovarci più in mezzo a incroci di sguardi impossibili da interpretare». Quanta paura avete avuto, Philippe? Uno pensa che quelli come voi alla paura ci abbiano fatto il callo... «Non è questione di esserci abituati. Sei preoccupato quando ti spingi oltre, perché devi prenderti rischi se vuoi raccontare quel che succede, spingerti più in là delle indicazioni che ti vengono date. E la preoccupazione nasce in primis per la difficoltà di filmare, perché con la radio sarebbe più semplice. Ecco, quando sai che devi chiedere di più al tuo lavoro allora sale la tensione. Per la paura, non saprei, forse nemmeno c’è il tempo per averne, o decifrarla». Altre volte non ce n’è l’occasione, perché la paura arriva a cose fatte: «Un giorno, in albergo, ci hanno chiesto di cambiare stanza, e dal terzo piano ci hanno spostato al quinto, per un problema di acqua, così ci è stato detto. Quando l’ascensore è arrivato al quinto, ci siamo trovati davanti un grosso portone blindato aperto su di un corridoio con ai lati stanze chiuse da porte anch’esse blindate. Ci hanno messi in una di quelle stanze. È stato in quel momento che abbiamo capito che il problema, probabilmente, non era l’acqua».


’Una trafila di porte blindate dentro mura di cemento armato’ (© Rsi)

Freddezza, dissociazione, sopravvivenza

La domanda che subito il telespettatore si pone guardando un documentario su Kabul com’era all’inizio di luglio è, per quel che ci riguarda, dove siano adesso tutti i protagonisti della storia. Antonini, lo scorso giovedì in Falò, rispose in modo esaustivo. E così Cairo, che da Kabul non se n’è mai andato. L’interprete invece è a Zurigo grazie all’intervento svizzero, il capo della radio a Istanbul, il responsabile dell’informazione in Albania e i giornalisti sono fuggiti, qualcuno in Iran. Ovunque, ma non a Kabul. «Ci siamo fatti qualche problema a chiamarli, abbiamo mandato loro messaggi e da qualcuno, per settimane, non abbiamo avuto notizie. Pensi subito ai telefoni sotto controllo, o caduti in mani sbagliate…». Ancor prima degli altri, il telespettatore si chiede dove sia Habiba, parte di quella ristretta ma numerosa categoria d’individui, i bambini, dei quali, non diversamente da altre, a questa guerra poco importa: «Habiba è tre volte vittima, in quanto bambina, in quanto donna e in quanto azara, etnia presa di mira dai talebani. Aveva voglia di parlare, di denunciare».

A questo punto del lungo racconto di Blanc, tutto sembra tornare tra i suoi viaggi, e in particolare torna Genova: «Mi è successo col Ponte Morandi: quando ti trovi con una vittima diretta o indiretta sui luoghi, in questo caso, di un attentato, è un momento molto delicato, perché non si tratta di portare via una testimonianza. In quel momento fai un’esperienza con la vittima e devi sapere dove e quando fermarti, perché il rischio è la cannibalizzazione». Il rischio è «“Ok, portami dov’è successo, raccontami, e io torno a casa con quello di cui avevo bisogno», la linea sottile che divide l’informazione dalla tv del dolore. «T’interroghi sempre, anche in sala di montaggio, su cosa tenere e cosa tagliare, per il pubblico ma anche per Habiba, che ha vissuto cose che forse solo un buon film horror riuscirebbe a riprodurre con una certa fedeltà».

Kabul, Genova, di nuovo Mosul: «Anche in Iraq, chi raccontava dimostrava una forza incredibile nell’andare avanti, ma grazie a un filtro, una maschera». Quella che pare «una freddezza di fondo, una dissociazione che porta a descrizioni precise, scientifiche di quello che è alla fine ‘istinto di sopravvivenza’». E con una telecamera in spalla, «ci vuole tanto rispetto quando questo accade».

“Se bruciate i nostri libri, scriveremo sulla sabbia, i nostri voti li scriveremo sulle foglie dell’albero. Se spezzate le nostre matite, scriveremo con dei rami sulla sabbia bagnata. Siamo uccelli braccati dai cacciatori, vittime dei pugnali degli ignoranti. Dopo una notte buia inizia una giornata splendente. Con i primi suoni delle campagne iniziamo a cantare. Il profumo della carta si spande da una casa all’altra”.

Echeggia nella scuola vuota il canto di Habiba, seduta a quello che è stato il suo banco di scuola, preso da altri banchi accatastati in un angolo della sua aula e rimesso lì dov’era sempre stato, quasi a ricreare l’intimità di un’aula che non esiste più se non per le mura ancora in piedi. «I banchi li hanno voluti spostare le bimbe, senza che nessuno di noi abbia suggerito alcunché». Blanc giura che avrebbe voluto fermarsi e spegnere la telecamera, quasi discolpandosi per la forza emotiva del passaggio: «Ho pensato che sarebbe stato troppo, non volevo nemmeno per un attimo che sembrasse che stessimo sceneggiando una tragedia. Della sua poesia non sapevamo nulla. Ci ha chiesto lei di poterla cantare. La sorpresa è arrivata col montaggio, quando l’interprete che ci ha aiutato con le traduzioni ha trascritto il testo, il pugno nello stomaco che si può leggere nei sottotitoli».


’Kabul prima del buio’ (© Rsi)

La discriminante

Il rientro di Blanc e Antonini dall’Afghanistan è stato un po’ rocambolesco. «Poco prima di recarci in aeroporto, una ragazza che aveva in volto tutta la preoccupazione per quello che sarebbe potuto accadere ci ha chiesto di portare in Svizzera un paio dei suoi quadri, per salvarli dai talebani. Ci ha messo a disposizione un’auto blindata, nel caso in cui non fosse stato possibile, così da riavere i dipinti. Quando le guardie, prima di entrare in aeroporto, ci hanno strappato i biglietti aerei davanti alla faccia perché pretendevano un test Pcr, e a nulla era valso dimostrare la nostra doppia vaccinazione, quell’auto ci ha riportati in città, dove non avevamo più un posto dove stare, essendo noi non più ‘sulla lista’, né in albergo, né altrove. Il giorno dopo abbiamo comperato altri due biglietti, e siamo ripartiti».

In questa guerra dalla quale non puoi andartene, i quadri sono stati imballati, messi sull’aereo e portati a destinazione. A Kabul sono rimasti «il nostro vissuto, le persone, un popolo intero»; in Svizzera è atterrato il pensiero che «io sono nato qua, l’unica discriminante tra noi e loro. Non so bene come spiegarlo, ma è chiaro che in momenti come questi metti in discussione un po’ tutto. Noi siamo qui a parlare della nostra esperienza, magari impressionante, magari abbiamo anche corso dei rischi, ma non è nulla rispetto a quello che vivono loro. Non vorrei che passassimo noi per eroi, perché non lo siamo mai stati, nemmeno per un giorno».

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