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Fondazione Ghisla, dieci anni dopo

Nel 2014, tra Bruxelles e Locarno vinse il lago. Con Pierino Ghisla e Boris Croce, aspettando un 2025 di arte americana e italiana a confronto

Alla destra del ‘cubo’, Pierino e Martine Ghisla; sotto, Boris Croce
13 dicembre 2024
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Dicono che l’arte ci salverà, ed è probabile che alla Fondazione Ghisla si salveranno prima degli altri. «Io sono salvo da tanto tempo, perché qui viviamo nell’arte – dice Boris Croce, direttore del museo che fa capo alla Fondazione – mentre tutto corre veloce, semplificato, a volte dannatamente piatto». Più che salvarci, «l’arte ci stimolerà, perché ‘salvare’ è una parola imponente», rilancia Pierino Ghisla in persona, anche a nome della moglie Martine. Scritta per intero, la Fondazione Ghisla Art Collection si appresta a concludere il suo decennale nel cubo rosso a due passi dal porto di Locarno, sede in cui sono conservati ed esposte cellule di Pop art, Informale, Concettuale, Astrattismo e tanto altro.

Incontriamo Ghisla e Croce a pian terreno, dove ancora stazionano le colorate visioni di Renato Tagli. A metà marzo, il cubo riaprirà con ‘In Between - Arte americana e italiana a confronto dalla Collezione Ghisla’, con le opere (62 di proprietà, 12 da prestiti) che occuperanno l’intero stabile, testimonianza ulteriore di un amore per l’arte che «è arrivato da sé, dalla mia piccola valle fino alla grande città». La piccola valle d’origine è quella di Blenio, la grande città è Bruxelles, dove i coniugi Ghisla hanno vissuto a lungo prima di sposare Locarno.

Pierino Ghisla, ci racconta la sua ‘prima volta’?

La passione per la pittura è sbocciata con un’opera di Georges Mathieu che cercai di comperare, ma al tempo non avevo i mezzi finanziari per farlo. Leggendo i primi libri e riviste di arte scoprii una galleria belga che esponeva i suoi quadri. Nel pieno dell’allestimento, il gallerista mi disse di presentarmi il giorno successivo e che sarei stato il primo a scegliere quale opera acquistare tra le diciotto esposte. Io e mia moglie comperammo un’opera e più tardi, giovani e con una certa soggezione nei suoi confronti, ci ritrovammo a cena con Mathieu. Col tempo ci siamo legati al gallerista, siamo entrati sufficientemente in amicizia per sentirci dire che quanto avevamo in casa non corrispondeva più a quello che stavamo acquistando. Ci propose un accordo legato all’amore di mia moglie per Christo, artista verso il quale io ero stato reticente per gli alti costi: “Vi do un suo quadro e io mi prendo quelli che con voi non c’entrano più”. Tra quei quadri c’era un cardinale dipinto da Libero Andreotti, che aveva sue opere a Palazzo Pitti, a Firenze.

Ha mai rimpianto lo scambio?

Mai. Quello fu il primo lavoro di Christo acquistato, ora nella collezione ne abbiamo cinque. L’accordo ci ha permesso di conoscere l’artista, che ci ha ospitati nel suo studio di New York e che abbiamo incontrato altre volte durante i suoi viaggi in Europa.

Non ama essere definito collezionista, benché ‘Art collection’ è nel vostro nome. Quale sarebbe la definizione corretta?

È difficile. Posso dire che oggi le più grandi collezioni non sono fatte dai proprietari ma da studiosi dell’arte, e in quelle collezioni io non sento l’emozione del proprietario. Dico anche che noi non abbiamo mai cercato un’opera, è stata l’opera a venire da noi. La nostra collezione è così diversificata perché è stata comperata nell’emozione di quel momento, e credo, spero che il visitatore possa coglierla.

Come arriva Locarno nella sua vita?

Per vent’anni vi abbiamo trascorso tre settimane di vacanza all’anno e poi, vicini alla pensione, la vita ci ha chiesto di scegliere: vendere l’attività e tornare in Ticino o escludere un ritorno e continuare a lavorare. Mia moglie mi ha assecondato, per dare un senso a una collezione che già era composta da duecento pezzi. Mi sono detto che questo mi avrebbe consentito di incontrare persone con le mie stesse passioni e allo stesso tempo di restare lavorativamente attivo.

Si smette mai di collezionare?

È quasi una dipendenza. Oggi puntiamo su artisti contemporanei, ma tutto è fonte potenziale d’innamoramento, la discriminante sta nelle circostanze e nelle disponibilità finanziarie. Ho mancato molte opere perché in quel momento non ne avevo le possibilità, e quando le possibilità ci sono state, l’opera non era più disponibile.

Posso chiedere quale?

Un’opera di Anselm Kiefer, che avevo avuto occasione di comperare. Il problema non stava nel prezzo ma nelle dimensioni, perché non c’era ancora l’idea di avere un posto di proprietà.

L’opera più complessa da comprare, la più ‘sudata’ di tutte?

Per un anno ho inseguito un lavoro di Johnathan Lasker (‘Rightful placement’, 2001, ndr). Frequentavo la galleria che la ospitava e un bel giorno il gallerista mi disse che la mia amicizia lo onorava ancora, ma che l’opera era stata venduta a Londra. Cercai di dimenticarla fino a che, due o tre anni più tardi, il gallerista mi disse che i due acquirenti, due giovani diventati ricchi in ambito finanziario e caduti in rovina, avevano dovuto vendere l’opera, che è diventata mia.

Come sono stati questi primi dieci anni?

Siamo apprezzati, anche dai locarnesi.

In che senso ‘anche dai locarnesi’?

Nel senso che sono ancora tanti i locarnesi che non hanno visitato le nostre mostre, ma Locarno e il Ticino non hanno responsabilità, la difficoltà di attrazione vale anche altrove. È così, ma cerchiamo di darci da fare con tante iniziative che si devono alla nostra spinta e a quella del signor Croce, dai dodici luoghi d’arte alle visite per le scuole, i concerti, tutte formule che sono state notate. Nel mondo dell’arte c’è chi crede che l’essere notati sia sinonimo di concorrenza, ma siamo complementari e il concetto sta arrivando a tutti, anche alle istituzioni.

‘Le cose stanno cambiando’

«Pierino e Martine Ghisla arrivavano dalla grande città, un luogo libero, dove l’energia scorreva. Hanno portato qui una ventata imprenditoriale, di apertura e relax. Qui la dimensione è familiare, è come entrare in casa loro. Inizialmente ho provato soggezione per il valore finanziario, oggi lavorarci è un piacere che si rinnova ogni giorno». Parole di Boris Croce su questi primi dieci anni. Approfittiamo di lui per placare la curiosità di sapere come si lavora circondati da capolavori: «Le opere sono quasi dei figli di Pierino e Martine, e lo sono un poco anche per me». Alle sue spalle, nel suo ufficio, oggi campeggia un Christo, ma in passato ve ne sono stati diversi altri.

È Croce che si occupa del museo, che garantisce ai Ghisla la ‘dimensione del piacere’ della loro fondazione, che segue gli adulti ma anche i giovani delle scuole: «Entrano facilmente in contatto con le opere, quelle del loro tempo. Se parlo loro di Basquiat, per esempio, contestualizzo New York e gli Stati Uniti della sua epoca, lui che era una specie di rocker, morto a 27 anni. Questo lavoro produce interesse anche nei docenti, che spesso prendono spunto da noi per lavori da portare in classe». Quanto ai locarnesi, quanto al Ticino, «le cose stanno cambiando, ci vuole tempo. Esiste un nuovo approccio verso la cultura nato grazie al signor Ghisla, alla Collezione Olgiati, alla Fondazione Braglia, al Lac, grazie a tutti quei musei che si stanno muovendo in quel senso».