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‘in-Visibilia’ di Katja Snozzi, ‘basta solo guardarsi intorno’

Sembra pittura ma non lo è. Si inaugurano a Locarno le visioni della fotografa, alla Fondazione Ghisla Art Collection fino al 5 gennaio

Per informazioni: www.ghisla-art.ch
(K. Snozzi)
7 settembre 2024
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Per dirla con Claudio Guarda, fedele curatore dei cataloghi di Katja Snozzi e non di meno di quest’ultimo, la mostra di cui scriviamo si riallaccia “alle mirabilia (cose mirabili) delle Wunderkammer e giocando sulla duplicità della lettura per un verso rinvia a quanto sta ‘dentro le cose visibili’, ma al tempo stesso afferma che, di norma, si tratta di cose ‘invisibili’ ai più”. Per dirla invece con la fotografa, citando dai suoi appunti: “Tutto si rimpicciolisce con l’età: l’uomo, il suo habitat, il suo raggio d’azione. Tutto si concentra sempre più sull’essenziale, anche la vista. La seduta tranquilla, l’attesa, la lentezza: inizi a vedere i dettagli di quanto ti sta vicino, ti lasci sedurre, entri in mondi nuovi fino a perderti”. Per dirla infine con Fernando Pessoa, le cui parole Snozzi ha voluto comparissero, visibili eccome, sotto il titolo della mostra: “L’essenziale è saper vedere, saper vedere senza pensare, saper vedere quando si vede e non pensare quando si vede, né vedere quando si pensa”.

Nell’atelier di Pierre Casè

‘in-Visibilia’ non è pittura sebbene lo sembri; è fotografia pura, senza manomissioni. I lavori potrebbero coprire otto anni, ma quanto esposto alla Fondazione Ghisla Art Collection di Locarno a partire da domenica (con inaugurazione pubblica oggi alle 17.30) «non è mai stato pensato come un lavoro programmato», ci dice l’autrice.

«Andavo a trovare spesso Pierre Casè (scomparso nel 2022, ndr), da lui mi sentivo bene, c’era la tranquillità giusta. Poco fuori il suo atelier teneva un bidone nel quale gettava olii e colore. In base al cielo, la superficie cambiava ogni volta colore. È diventato un gioco continuo…». La causa scatenante di ‘in-Visibilia’, il primo sguardo dentro al bidone di Casè, è incorniciato all’ingresso della sala, insieme all’unica didascalia dell’intera esposizione. «Non amo le didascalie. Si fanno fotografie con l’intento che parlino da sole. Se riesco a entrare nell’anima di qualcuno, non serve scrivere di cosa si tratta». Che piacere ci sarebbe, alla fine, sapere che dietro le visioni di Snozzi ci sono elementi rintracciabili della nostra urbana quotidianità che ai nostri occhi diventano altro: muschio che diventa foresta, tazzine di espresso che diventano organismi unicellulari, ruggine che diventa cielo, vecchi lavabi che diventano roccia, «cose che magari non hanno alcun senso, ma che possono far volare la fantasia». La fotogenica lamiera è al momento sulla terrazza di Snozzi: «Attendo che arrugginisca ancora un po’».

Al piano alto della Ghisla c’è una sezione che si potrebbe denominare ‘Locarno’, con apparenti ‘non luoghi’ che però vengono dalla città: «Basta guardarsi in giro…». Sorride Katja, spingendoci senza alcun obbligo a scovare quel muro, quel marmo o altra riconoscibilità che non sia (troppo facile) il ciottolato della Piazza Grande. Piazza che poco più in là ha una sezione tutta per sé. Eppure, dentro la stanza, la curiosità di sapere ‘dove’ è schiacciata dalla voglia di immaginare ‘come’. Solo l’informazione che una sequenza di scatti viene dalla panchina di Peggy Guggenheim a Venezia, seconda città di Katja, conferisce emozioni aggiuntive: «Da anni mi siedo lì. Nei suoi particolari vedo parti di mondo, carte geografiche» (giureremmo di averci visto la Francia, ma potrebbe anche essere un felino). Altrove è appeso il prodotto della scala di un imbianchino: «Non era una scala, era un oggetto d’arte. Ho chiesto di poterla fotografare, lui mi ha detto ‘certo, un attimo che la pulisco’. L’ho implorato di non farlo...».

Nessuna manipolazione, dicevamo, solo «una minima postproduzione» e pochi accenni di colore, conquistati. «Sono diventata coraggiosa. Con i colori non ho mai lavorato volentieri, non è il mio mondo, ma ho notato che quando cominci a stare meglio è il mondo stesso a rivelarsi più colorato». E il colorarsi del mondo di Snozzi, questo suo «stare meglio», segnano anche il superamento di un momento doloroso, la perdita del marito Mucio nel 2016.


‘Non amo le didascalie’

Dignità

Il bianco e nero resta preponderante nella cifra stilistica di Katja Snozzi. Sin dagli inizi, sin dal ‘bianco&nero’ del 2014, i bimbi fotografati durante i viaggi per conto di organizzazioni umanitarie; fino ai centenari, in mostra nel 2017 al Museo Vincenzo Vela e nel libro ‘Anime centenni’. Mentre l’‘in-Visibilia’ cresce, i ritratti continuano: «Mi è stato chiesto di fotografare persone con il morbo di Alzheimer, un lavoro stimolante in chiave di sensibilizzazione, ma anche impegnativo. Non è facile ritrarre anziani e malati, mi assicuro sempre che la persona ritratta sappia ciò che sto facendo. Non voglio rubare una foto, in ogni scatto deve esserci dignità». La stessa dignità dei suoi reportage: «Le immagini che mi sono rimaste impresse sono quelle che non ho mai pubblicato. C’è un limite tra un’informazione chiara e la spettacolarità, e nessun essere umano si merita di essere pubblicato in certe circostanze. La fotografia non è turismo del macabro».

Da figli dell’analogico confidiamo a Katja il senso di colpa nel dire “ho fatto una bella foto” con lo smartphone. «No, non deve provarne», risponde lei. «La mia generazione ha vissuto il suo progresso tecnologico. Sono contraria a espressioni come “ai miei tempi era meglio”, perché non è così. Oggi è diverso, e le possibilità sono interessanti». Anche perché le macchine saranno anche cambiate, ma la Storia quella è: «‘Mondomomenti’ (mostra del 2011 al Museo Casorella, ndr) voleva essere il mondo in un centinaio di scatti, ma se guardo le immagini di ieri e quelle di oggi, se prendiamo una qualsiasi catastrofe umanitaria di ieri e di oggi e le mettiamo in bianco e nero, pare si tratti della stessa guerra». Allo stesso modo: «Quando pensavo fosse importante fotografare le donne afghane, viste le condizioni di vita, non immaginavo che dopo decenni non sarebbe cambiato nulla».

Lasciamo Locarno dopo avere parlato di quel Palazzo Trevisan che “speriamo si riesca a tenere”, della città sull’acqua che “ci posso andare mille volte e vedo ogni volta cose nuove”, della Venezia che “il caldo e i turisti? Io so dove andare, l’ho fotografata tanto di notte”. Parte di quel vagare notturno sta in ‘Silenzi Velati’, mostra del 2022. L’altro vagare, che dura da prima, è la quotidiana ‘in-Visibilia’ visibile alla Ghisla, approcciata con lo stesso spirito di sempre. «Un amico vorrebbe proibirmi di aggiungere altro e io continuo a fotografare, perché ogni giorno c’è qualcosa da vedere». Che sia la Francia, un felino o altro che «mi faccia stare bene». Che ci faccia stare bene.