Restituire le opere d’arte ai Paesi d’origine è un problema della politica, non dei musei, spiega il direttore del Musec Francesco Paolo Campione
È nota come “spedizione punitiva del 1897”, ma di fatto segnò la fine del secolare Regno del Benin o Regno di Edo, divenuto prima protettorato e poi colonia, fino all’indipendenza della Nigeria ottenuta nel 1960. L’ammiraglio Harry Rawson, come rappresaglia per l’uccisione di una missione diplomatica, invase il Paese con milleduecento uomini e in poco più di due settimane raggiunse la capitale del regno, costringendo il sovrano, l’Oba Ovonramwen, all’esilio e raccogliendo un ricco bottino di guerra che venne messo all’asta per coprire i costi di questa “spedizione punitiva”.
Si parla di migliaia di manufatti in ottone, avorio e legno, tra cui spiccano i celebri “bronzi del Benin”, delle lastre di ottone a rilievo con le rappresentazioni di figure riccamente adornate e scene di vita di corte. Quasi la metà di questi bronzi finirono al British Museum; il rimanente venne venduto soprattutto a musei tedeschi, disperdendosi così nel patrimonio museale europeo. Incluso quello svizzero: in base alle ricerche condotte nell’ambito dell’Iniziativa Benin Svizzera iniziata nel 2021, nel nostro Paesi si trovano una cinquantina di manufatti provenienti dall’incursione dell’esercito coloniale britannico, anche se la maggior parte di questi è arrivata in Svizzera molti anni dopo. Il Museo Rietberg di Zurigo, uno dei partner di questa iniziativa, ha da poco inaugurato una mostra che non solo mette in evidenza il saccheggio del 1897 e le sue conseguenze, ma lo fa partendo dalla prospettiva nigeriana, collaborando con partner nigeriani e della diaspora.
La restituzione alla Nigeria di una parte di questi manufatti è uno dei possibili esiti dell’Iniziativa Benin Svizzera – se ne discuterà il prossimo ottobre – e a prima vista appare un atto dovuto, la giusta per quanto parziale e tardiva riparazione di una grave ingiustizia. Il tema è tuttavia più complesso del semplice, per non dire semplicistico, risarcimento di un torto e riguarda non solo la ricostruzione e valutazione del passato e il rapporto con le altre culture, ma anche il valore che riconosciamo agli oggetti d’arte e il ruolo dei musei. «Non possiamo pensare un’opera d’arte guardando solo al suo valore originario, ma dobbiamo prendere in considerazione tutta la sua storia e tutti i valori che quell’opera ha assunto nel tempo» ci spiega Francesco Paolo Campione, direttore del Museo delle culture di Lugano, da sempre critico verso certi «eccessi ideologici» che rischiano, appunto, di impoverire la nostra memoria anziché arricchirla.
Il punto centrale è il ruolo dei musei che, secondo Campione, rischiano di essere coinvolti in un ruolo che non compete loro. «La missione dei musei è conservare la memoria, non fare i processi alla storia». È quindi non solo lecito, ma anche doveroso che istituzioni come il Rietberg problematizzino il passato e le opere che possiedono ed espongono, ricostruendone tutta la storia. «È una cosa alla quale prestiamo moltissima attenzione anche al Museo delle culture, coinvolgendo la diplomazia svizzera e avviando un dialogo con le comunità originarie e i governi». Tuttavia, prosegue Campione, è scorretto che una simile presentazione si concentri solo sul momento in cui queste opere sono state realizzate e poi portate in Europa, trascurando momenti altrettanto importanti della loro storia, «pensiamo ad esempio alla grande influenza che queste culture hanno esercitato sull’arte del Novecento».
Quanto al coinvolgimento, negli allestimenti, di rappresentanti delle comunità originarie, «è una possibilità che in alcuni casi, come quello della mostra sul Regno del Benin al Rietberg, ha senso; bisogna tuttavia tenere conto che il nostro pubblico è locale e quindi certe logiche visive e interpretative vanno spiegate, altrimenti si rischia paradossalmente di reiterare ancora una volta l’esotismo non interpretato».
Quando chiediamo di casi in cui questo dialogo può portare a non esporre determinate opere, Campione cita il caso delle teste umane rimodellate. «Nella nostra collezione ne abbiamo alcune provenienti dalla Nuova Guinea, dove questa era una pratica artistica e quindi, se espongo queste teste, non tradisco il valore originario delle opere, per quanto potrei urtare la sensibilità europea contemporanea. Completamente diverso il caso delle teste māori che furono oggetto di un commercio per mostrare agli occidentali l’orrido e il fantastico dei tatuaggi sui volti dei guerrieri. Ci sono stati casi di persone alle quali, dopo la morte, la testa è stata tagliata e tatuata per poi essere venduta a occidentali: queste opere non le esporrei mai perché non fanno parte di nessuna tradizione ma anzi la tradiscono».
Qui, con una ricostruzione il più completa e rispettosa possibile della storia e della memoria, si fermano le competenze dei musei. «La restituzione di manufatti e opere d’arte non può essere decisa dai musei» afferma con decisione Campione. Da chi allora? «Dai tribunali internazionali: vi sono organismi internazionali il cui compito è proprio giudicare casi come questo tra Nigeria e Regno Unito che è l’unico responsabile, visto che gli altri musei hanno acquistato lecitamente le sculture dai britannici. La Nigeria dovrebbe portare in aula il Regno Unito e chiedere la restituzione delle opere conservate al British Museum, e di quelle entrate a far parte del tesoro della Corona: gli avvocati di una parte diranno che le leggi dell’epoca ammettevano i bottini di guerra, quelli dell’altra contesteranno appellandosi magari a un diritto naturale e alla fine si arriverà a una sentenza».
Nel frattempo, o in alternativa viste le difficoltà che incontrano le corti internazionali, i musei non possono agire in maniera extragiudiziale, con una restituzione volontaria? «È un errore perché non è quello il compito dei musei: alla politica può far comodo così, che a decidere siano i musei, perché se decidono i musei allora non deve decidere la politica. Ma è la politica che deve assumersi la responsabilità di processare la storia, di decidere che quelle opere vanno restituite: troppo comodo scaricarla sui musei».
Campione conclude invitando a guardare cosa succede dopo la restituzione. «I musei europei fanno spazio nei propri depositi e questo per loro è un affare: in cambio di poche opere di valore, si fa bella figura e al contempo ci si libera anche di centinaia o migliaia di oggetti che rappresentano un costo, perché la conservazione delle opere nei depositi è una spesa importante nei bilanci dei musei». Non solo. «Spesso i Paesi di destinazione non hanno musei e a chi si rivolgono per costruirli? Agli occidentali: ci sono società che fanno esattamente questo, fanno musei in giro per il mondo: costruiscono l’edificio, allestiscono l’esposizione, formano il personale e via. «Non è forse anche questa una forma di neocolonialismo?».