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Flavio Paolucci, più di un pezzo da 90

Partendo da ‘Da Guelmim a Biasca’, film di Villi Hermann a lui dedicato, una riflessione sull'artista, che compie oggi novant'anni

Flavio Paolucci, dedicato a Pier Paolo Pasolini
(Imagofilm)
20 giugno 2024
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C’è un momento, durante il film dedicato da Villi Hermann a Flavio Paolucci, in cui l’artista mostra alcuni suoi lavori di ambientazione pop. Si tratta di collage su carta nei quali vediamo come, nella seconda parte degli anni Sessanta, Flavio Paolucci interagisce con pratiche artistiche in quel momento vivaci. Sia Manuela Kahn-Rossi nel 1988, sia Elio Schenini nel 2013 fanno cenno alle opere di quel periodo e Schenini nota giustamente come l’artista ticinese sia piuttosto interessato, nell’universo pop, alle declinazioni europee. In effetti per leggere correttamente l’articolazione storica della poetica di Flavio Paolucci sarebbe utile ricostruire oculatamente la sua relazione con il contesto milanese, dove egli ha studiato, e con personalità eminenti della storia della cultura della città come Aldo Carpi o Beppe Devalle, artista importante e poco conosciuto, interessante espressione della tradizione pop continentale.

Oltre ai collage, nel film si vedono alcuni quadri nei quali figure, “oggetti” pittorici dai colori vivaci, rossi, arancioni, si stagliano su fondali monocromi sgargianti. Con queste suggestioni Flavio Paolucci ci aiuta a emanciparci dall’equivoco naturalista nel quale si tende talvolta a incastrare il suo profilo. Due altri momenti del film sono significativi. Davanti al Monumento ai volontari ticinesi antifascisti uccisi in Spagna tra il 1936 e il 1939, Paolucci dice, se ricordo bene, che esso è un po’ surreale ma vero; “e pensa quanto erano veri quei ragazzi”. Commentando il lavoro dedicato nel 1977 a Pier Paolo Pasolini, dice di avere voluto confrontarsi e rendere omaggio a una persona «ambigua ma vera». Ambiguo (nel senso della plurivalenza), surreale, vero sono concetti utili a capire il lavoro di Flavio Paolucci così come il riferimento alla Resistenza, all’impegno militante evocato nelle due ultime opere e al fare poesia di carne, vita e materia. Ne troviamo un esempio leggendo Le belle bandiere di Pasolini:

“Su quei muretti, su quelle strade,

imbevuti di strano profumo,

dove fiorivano rossi nel tepore

i meli, i ciliegi: e il loro colore rosso

aveva una brunitura, come

se fosse immerso in un’aria di caldo temporale,

un rosso quasi marrone, ciliege come prugne,

pometti come susine, che occhieggiavano,

tra le brune, intense

trame del fogliame, calmo, quasi la primavera

non avesse fretta,

volesse godersi quel tepore in cui fiatava il mondo

ardente, nella vecchia speranza, d’una speranza nuova”

C’è molto in colori, frutti, profumi e cose; una carnosa e sapida intensità che sfocia però nell’occhieggiare, nel “come se” (l’oggetto è referente formale di qualcos’altro), nel “quasi”: l’equilibrio tra la “vecchia speranza e la speranza nuova”.

Dunque: “definirlo naturalista, pare francamente eccessivo” (Tommaso Trini, 1995), e Giulio Ciavoliello, nello stesso volume: “Si tratta della ricerca d’equilibrio, di un equilibrio tra uomo e natura, tra individuo e mondo; … anelito … che si travasa direttamente nell’elaborazione della forma. Vi riscontriamo una particolare armonia, uno strano imprevedibile bilanciamento formale … fuori codice”. Quando Flavio Paolucci ci parla di ambiguità, si tratta proprio di questa ricerca di equilibrio formale consapevole delle modalità che sono a sua disposizione. Non rinnega e non “nega la negazione, delle avanguardie e delle neo-avanguardie” (Ciavoliello). Ne acquisisce ed elabora i princìpi innescando una dialettica tra le proprie radici e lo sviluppo formale. Martin Kunz nel 2013 descrive questa poetica anche evocando con una metafora la necessità di dare alla fonte che sgorga dalla montagna uno sbocco verso un fiume, scongiurando il ristagno dell’acqua.


Job-Massimo Pacciorini
Flavio Paolucci, Il racconto parlava anche di un sasso (2024_legno, carta, colore, sasso, cordicella)

Archeologia

Ivo Monighetti, nel 1989, ha evocato la componente archeologica del lavoro di Flavio Paolucci: attraverso un processo di semplificazione o di essenzializzazione semantica, egli riculturalizza con la formalizzazione artistica un oggetto naturale, o meglio un frammento estratto, estrapolato dall’universo della natura, espropriato forse, in parte, ma con piglio di forte e radicato rispetto, di affetto e di riconoscimento per il modo in cui il frammento appartiene alla realtà biografica dell’artista. Egli racconta come lo shock della prima esperienza in Marocco (nel 1964) lo ha sobbalzato dai propri riferimenti e scaraventato in un andirivieni verticale tra terra secca e cielo blu, inducendolo a riconsiderare il proprio mondo di origine: i sentieri nascosti sui quali la selva lavora, per parafrasare i titoli di due monografie dedicate alla sua opera. Non torna però alle origini per rifugiarsi. Se ne riappropria, formalmente, attraverso i frammenti che ne estrapola; biograficamente, camminandoci. Scrive Martin Kunz: con “discrezione ed eleganza l’intervento sulla natura – toccata, modificata e ricombinata – è, anche quantitativamente, assai radicale e determinante”.

Andare dove è la fonte è un accompagnare il sé nella geografia di riferimento, utilizzare la propria complessiva e storicamente determinata soggettività come dispositivo nel quale si verifica e genera il lavoro artistico.

Durante la fase attuale, proseguendo nei sentieri della vita, Flavio Paolucci non si è distaccato dal piglio archeologico riconosciutogli da Ivo Monighetti ma lo persegue con una ricerca di equilibrio specificamente etereo e libero, conducendo a ulteriori lidi il lirismo grafico e la precisione del gesto che consiste nel posizionare gli oggetti espressivi in particolari punti dello spazio, in alcune nicchie o estremità o situazioni di equilibrio estremamente delicato o estremamente confortevole. Lo si è visto, quest’anno, nell’allestimento curato da Dietesheim & Maffei nei padiglioni della fiera Artgenève e negli spazi della galleria a Neuchâtel. Lo si vede nella mostra attualmente allestita presso la Galleria Kromya di Lugano.

La produzione attuale è un ulteriore dono del suo impegno che beneficia di vitale lievità, disincanto ironico, libertà serena e continua precisione affettuosa che possiamo ricambiare con un affettuoso augurio per lui e per noi.


Imagofilm
Flavio Paolucci, periodo pop