‘Nel paese delle vacanze’, gli incontri con Enzo, Gilbert, Berto, Nicola, Nadia, Silva che parlano di una montagna che sta scomparendo
Mi salvano il vento tra le foglie degli alberi, le voci della parlata popolare, il sorriso dei miti: come questo di Enzo, che incontro lungo il Lys e racconta di quando portava l’acqua con una barra sulle spalle, un secchio da una parte e uno dall’altra, così si bilanciavano. Enzo è stato operaio all’Illsa e, nel contempo, aiutava i contadini. Aveva la passione della motocicletta: la sua Gilera filava, eccome! sulle strade della valle...
È il primo incontro che faccio quest’anno nel paese delle vacanze. Il secondo è Gilbert, il Parigino che ha lasciato la metropoli per questo paesino. Conosce tutto di qui e va dappertutto da solo: ama la solitudine. Però ci chiede se ci piace lo champagne: quando verrà a trovarci ce lo porterà. Gilbert sa conciliare i sentieri aspri di montagna con le bollicine della presunta "belle époque".
Arrivati a baita, la prima notizia me la dà Berto: la grandinata che ha devastato gli orti dell’Endrèt. La seconda, Nicola: il lupo che ha squartato le capre su all’alpeggio. L’ha visto da vicino il lupo, Nicola. E poi fa un’invettiva contro gli animalisti e gli ambientalisti, invettiva ricorrente da anni nei suoi discorsi. Nadia invece mi racconta dell’incidente incorso a un suo conoscente: precipitato dalla balconata sulla quale stava lavorando. Mi vengono in mente gli ex-voto della Madonna della Guardia. Ma oggi è il turno della Madonna delle Nevi e Berto si prepara alla festa.
Com’è andata la festa? Ci ha preso la grandine, racconta. Ancora lei, la maledetta. Si sono rifugiati sotto il portico della cappella di San Grato, anche i musicanti che suonano il valzer, la mazurka e "Siamo i Watussi". Berto mi porta una bottiglia di latte. Quest’anno ha una vacca sola in stalla, più due vitelli e un torello. Le altre vacche sono all’alpeggio. Prima mi portava il latte di capra ma quest’anno non tiene più capre, perché ha paura del lupo: che per adesso mangia le marmotte su in alto dove regna la solitudine, ma poi toccherà alle capre qui, a novecento metri.
Sta cambiando qualcosa nella sua vita. Niente è più come prima, dice. Tutto finito. Sono rimasti pochissimi contadini, nel versante dell’Endrèt, e vecchi; se non tengono pulito loro, i rovi invadono il terreno, che si inselvatichisce senza remissione: crescono sette, otto metri l’anno, i "roveri", e non lasciano più passare neanche la volpe per i sentieri. E la faina sgozza la gallina e i fili dell’alta tensione hanno decapitato un gufo: Berto ha trovato sul piazzale asfaltato la testa del gufo: muoveva ancora gli occhi.
Non c’è più nessuno qui, ripete, tutto finito. E, se finisce la montagna, finisce anche la pianura.
In questa conca vegetale c’è un gran silenzio, rotto talvolta da una fresa una motosega un colpo di clacson che viene dal fondovalle, dall’Ave Maria delle campane elettriche o dalla musica per la festa del patrono. Il silenzio stamattina è interrotto solo dal caracollare di due caprioli tra le frasche. Qui arriva il rumore di sottofondo del torrente che solca la valle. Ma più che rumore è musica: che può diventare anche minacciosa, perché la Natura non è solo buona madre.
Sono nella frazione di Nanthey: un groppo di case dove vivono ancora soltanto due donne: una capraia vivace e una vecchia spaventata che si aggira nell’orto davanti a un cespo di cicerchia color lilla. Sulla parete di una cascina si arrampicano tralci d’uva bianca e dall’interno squarciato di una stalla sporgono i rami di un sambuco. In un antro, una vecchia cassetta di plastica con dentro bottiglioni vuoti e impolverati. Contro il cielo azzurro si staglia una stufa economica abbandonata, marca "Splendid", accanto a un grill arrugginito. Per contrasto, ai margini del viottolo ecco un gran lampione fuori scala, che avrebbe forse voluto illuminare una rinascita. Ma i resti più impressionanti sono i due pilastri nudi di un portico che non c’è più, all’esterno di quella che doveva essere una chiesetta: quei pilastri rotondi non reggono più nulla e le pietre della volta, all’interno del rudere, non portano più neanche una traccia d’intonaco: sassi nudi senza santi e senza Cristo, come dopo un bombardamento. E qui, dove un tempo si trovavano i montanari per la messa domenicale, ora una capra bruca i rovi dell’abbandono.
Silva, nonostante tutto, resiste. Su questo versante è una delle poche a resistere; insieme a Nicola, che, con un’aria un po’ disperata, stamattina è partito per raggiungere il fratello su a duemiladuecento metri, dove lo aspettano quaranta vacche da mungere a mano.
Magra come un palanchino, grandi mani e grandi piedi, Silva ha un viso espressionista che sembra intagliato nel legno come quello di una santa gotica, due occhi chiari e i capelli coperti da un fazzolettone blu, una canottiera con su scritto USA e la roncola col manico di cuoio appesa alla cintura dietro la schiena. Ventisette capre, non tutte sue. Ma le più belle sono sue, e ne va orgogliosa.
Ogni tanto una capra le si avvicina, lei mette la mano nel marsupio e le dà un po’ di sale o di pane. Ora racconta del vicino solitario: andato, dice. Non lo vedeva da tre giorni, si era chiuso in casa, allora ha dato l’allarme in paese e sono entrati dal balcone, l’hanno trovato con le gambe gonfie e tante bottiglie vuote sul tavolo di cucina. La voce di Silva e il suo racconto si perdono nel grande verde, che tutto comprende e perdona.