Una riflessione composita e multidisciplinare sul nostro paesaggio e una breve rassegna su un artista dimenticato
Chi si recasse in questi giorni alla Pinacoteca Züst vedrebbe due mostre in un colpo solo: molto diverse sia per concetto che per ampiezza, ma che si congiungono e attraversano in un punto. Ad accogliere e poi ad accompagnare il visitatore è la rassegna ‘L’incanto del paesaggio’ che ha il pregio di spiazzare fin dalla prima sala le sue possibili attese e di metterlo a confronto con qualcosa di più vasto e complesso.
Non si tratta infatti di una esposizione in cui vengono allineati bei quadri che raffigurano il meglio del paesaggio ticinese, lacustre prealpino e alpino; si tratta invece di una riflessione composita e multidisciplinare sul nostro paesaggio, le sue specificità e la sua storia che registra una radicale trasformazione tra Otto e Novecento: con l’inesorabile fine della sua millenaria civiltà rurale, prealpina e alpina. Ma è anche in quel torno di tempo che si sviluppa una conoscenza sempre più scientifica e documentata del nostro territorio.
"La caratteristica di questa mostra – scrive la direttrice della Pinacoteca in apertura di catalogo – è l’interdisciplinarità. Il paesaggio ticinese è rappresentato attraverso gli occhi non solo dell’artista, ma pure del geografo, del naturalista, del fotografo e dello storico dell’arte che volge lo sguardo anche ai suoi monumenti". L’intento è dunque quello di dar conto della varietà di prospettive, di analisi e di tecniche utilizzate da coloro che, a partire da metà Ottocento, guardarono e interpretarono con occhi nuovi e nuovi strumenti d’indagine il nostro territorio. A cominciare dagli scavi archeologici che permisero di delineare le prime forme di vita e cultura dei suoi più antichi abitanti: per questo la rassegna inizia "con il menhir (2500 a.C.) recentemente ritrovato a Claro (…) primo oggetto conosciuto realizzato e posato in Ticino con precise finalità estetiche e simboliche e con l’evidente volontà di contrassegnare un’area sacrale particolarmente significativa".
Ma a quel mondo che sprofonda nella notte dei tempi, gli studiosi dell’Ottocento accostarono lo studio scientifico e analitico della sua orografia, della geologia, della sua flora e fauna: lo indagarono, e più tardi lo fotografarono anche, per documentarlo con strumentazioni del tutto nuove, ma anche per fissarne la bellezza e le forme della sua cultura non solo materiale. Ed ecco allora le prime rappresentazioni cartografiche della Svizzera e del Ticino, approntate secondo tecniche sempre più evolute, le mappe, le raffigurazioni delle montagne e dei panorami alpini; cui si accompagna lo studio dei naturalisti che descrissero con precisione le componenti del paesaggio naturale, raccogliendo e catalogando i più differenti materiali dai minerali ai fossili, dai funghi alle foreste di larici e ai castagneti ecc. A questa prima parte che dà conto dello studio scientifico del Ticino, segue quello del paesaggio antropizzato che inevitabilmente allarga lo sguardo del visitatore sulla cultura materiale e immateriale dei suoi abitanti lungo i secoli: con le prime catalogazioni non solo dei suoi monumenti più significativi a opera di Johann Rudolf Rahn (1841-1912), padre della storiografia artistica elvetica; ma anche del paesaggio rurale o alpino in cui vivevano e questo grazie al suo allievo e aiutante Hermann Fietz (1869-1931) che illustrò e rilevò con oggettività e precisione anche il loro contesto di vita: paesi, case, strade e chiese, gli abitanti e i loro costumi. Conclude la rassegna una corposa selezione di dipinti che documentano la grande varietà e bellezza del territorio ticinese (dal bosco e dalla selva castanile al vigneto; dal paesaggio collinare a quello lacustre e poi alpino, perfino glaciale) a opera di artisti che con la loro arte favorirono e rafforzarono lo specchiamento identitario con il territorio.
A fare uno stacco tra i due momenti, una deviazione: perché la riflessione che fin qui si è espansa a onde concentriche, sempre più vaste e coinvolgenti, improvvisamente registra un affondo nella storia della nostra cultura. Si tratta di una breve rassegna sull’arte di Giacomo Martinetti (1842-1910), nato a Firenze da una famiglia originaria di Barbengo e poi quasi completamente dimenticato, a dimostrazione della labilità della nostra memoria. La breve rassegna non manca d’interesse: allievo prediletto di Antonio Ciseri (1821-1891) e suo assiduo aiutante, ma di una generazione più giovane, lascia intravedere deboli segnali di modernizzazione nonostante abbia villa al mare a Castiglioncello dove convenivano non pochi artisti, tra cui alcuni tra i più famosi macchiaioli ospitati da Diego Martelli. Merito della tenace indagine della Agliati è di aver riportato in luce anche questo tassello della nostra storia di migrazioni, dandoci un inedito ritratto sia dell’uomo che dell’artista.