Prolungata fino al 26 luglio la mostra che il museo di Basilea dedicata ai paesaggi del pittore americano
La rassegna che la Beyeler dedica al pittore americano Edward Hopper (1882-1967) nasce sull’onda di un recente prestito a lungo termine concesso alla Fondazione. Si tratta di un dipinto che per decenni ha fatto parte della Collezione Rockefeller: un gran bel quadro, un metro per 75 cm, anche se il luogo in sé non ha nulla di speciale. Raffigura un paesaggio collinare con rocce, prati e arbusti che salgono il fianco della collina fino alla sommità dove dovrebbe spalancarsi quell’azzurro-cielo cui Hopper non concede tutto lo spazio che esso vorrebbe. Il sole non si vede ma lo si intuisce per via delle lunghe ombre scure che le rocce proiettano sulla distesa erbosa sottostante, tagliando in diagonale il quadro: si tratta quindi di un dipinto visto da sotto in su e in controluce, che è come dire in contropelo. Solo un piccolo spiraglio sulla destra lascia intravedere parte dell’orizzonte lontano, ma non sai bene se sia mare o cielo: ci si vorrebbe soffermare ma le lunghe ombre, che salgono verso sinistra, tirano l’occhio dall’altra parte, creando tensione. Hopper, insomma, non si concede mai del tutto, neanche nel caso di paesaggi, piuttosto morde il freno, va controcorrente.
Quel prestito è stato lo stimolo per allestire una mostra mirante a una lettura più articolata su modalità e funzioni della pittura paesaggistica dentro la pittura di Hopper notoriamente considerato il pittore degli spazi e della solitudine metropolitana. A far da corona a quel dipinto ecco allora altri celebri paesaggi a olio, accanto a tutta una serie di acquerelli e disegni fatti in presa diretta: una sessantina di opere incentrate su sconfinati spazi pressoché disabitati, case isolate ai confini del bosco o in riva all’oceano, ferrovie che tagliano il paesaggio, pali della luce e pompe di benzina ai bordi di strade assolate dove non passa che qualche rara auto. Poche, pochissime le presenze umane che si muovono dentro questi luoghi ai margini… come ai margini appare anche la sua arte per via di quel suo “realismo” in ritardo rispetto sia alle avanguardie storiche che alle successive e più recenti correnti d’arte. Una pittura distaccata, senza intrusioni sentimentali, basata sulla rigorosa osservazione: così parrebbe.
Ciò nonostante Hopper colpisce e coinvolge, perché sa ridestare nell’osservatore sensazioni che gli sono ben note o lo lascia in una situazione di sospensione dove non tutto torna. A cominciare dalla “limpida geometria delle sue composizioni” più volte indicata come una sua peculiarità, tanto nei paesaggi urbani quanto in quelli rurali, che viene però inficiata dalla desolata prosaicità degli elementi raffigurati (case strade treni e ponti) oppure dalla spigolosità delle architetture o dall’anonimato dei luoghi. Sappiamo che Hopper dedicava grande attenzione e tempo alla composizione dei suoi dipinti, alla disposizione delle parti, alle relazioni tra colori… tutti elementi studiatissimi, certo, ma per ottenere l’effetto contrario: non la sublimante identificazione con la solarità del dipinto, ma la sensazione che da qualche parte o in qualche modo qualcosa sfugga sempre o non coincida con le nostre attese. Ne sono prova proprio i tagli di luce con cui spesso costruisce l’impianto compositivo dei suoi dipinti: secchi, taglienti e puntuti, privi di tonalità intermedie… tanto da apparire quasi una gabbia che imprigiona l’uomo: il cui sguardo si protende fuori campo, verso un altrove che è però precluso all’osservatore. Così facendo Hopper fa in modo che anche lo spettatore, inconsapevolmente, cerchi oltre quel che vede: una risposta che non verrà, un desiderio destinato a rimanere inappagato.
E non è neppur vero, come si è scritto, che i suoi paesaggi della provincia americana incarnino “la segreta aspirazione dell’uomo a misurarsi con la vastità degli spazi”, vale a dire con l’infinito, perché c’è sempre qualcosa – un binario, dei tralicci, due auto parcheggiate – che inesorabilmente lo riportano di qua, rasoterra. Non oltre la dimensione del tempo e del finito, ma nel flusso del non-tempo, nel grigiore dei giorni che si succedono tutti uguali, dentro scenari che in realtà non ci appartengono perché sono solo dei fondali. È il volto indistinto e anonimo, indifferenziato e fors’anche indifferente della metropoli (o della vita?) odierna che il sociologo francese Marc Augé avrebbe poi chiamato il non-luogo, ovverosia tutti quegli spazi, tipici del nostro tempo e della nostra civiltà, anonimi e funzionali, privi di identità, frequentati da persone che passano l’una accanto all’altra ma senza relazioni: stazioni, bar, caffè.
Anche la pittura di paesaggio di Hopper, a modo suo, si muove quindi nello stesso senso della sue pitture metropolitane e consuona con quelle: immagini anonime e impersonali che riproducono fotograficamente porzioni di realtà. E c’è del vero. Ma come può essere allora che la apparente neutra descrizione trascenda se stessa e si faccia spia dell’inesorabile solitudine umana, rivelazione di inquietudini e attese che trapelano a fior di pelle? Da cosa dipende che quel senso di straniamento che investe anche il familiare e quotidiano?
È su questa nota di fondo che attraversa tutta la sua arte, che la ‘anacronistica’ pittura di Hopper coglie ed esprime il ‘disagio del moderno’: e cioè la sensazione di un qualcosa che manca sempre per la pienezza di una vita.