Se i due cd “La Stüa” e “L’occhio della betulla” sono rimasti per un mese nella top ten di iTunes Svizzera, categoria “Jazz contemporaneo”, un motivo doveva pur esserci. E lo abbiamo trovato ascoltandoli. Un diploma d’orchestra e insegnamento al Conservatorio di Zurigo, uno di solista al Conservatorio di Losanna e molte esperienze che includono pure un Estival Jazz, Marco Santilli ha pubblicato non uno, bensì due cd. Fossero usciti su vinile, sarebbero i 4 lati di un concept album. “La Stüa” è una registrazione del febbraio 2016 al Musikinsel Rheinau, alla quale partecipa anche Il Fiato delle Alpi (flauto contralto, corno inglese, clarinetto basso, corno e fagotto). Un quintetto classico che si unisce alla formazione base, i CheRoba, ovvero Santilli (clarinetto e clarinetto basso), Lorenzo Frizzera (chitarre), Ivan Tibolla (piano e fisarmonica) e Fulvio Maras (percussioni). In perfetta solitudine, i quattro suonano nel secondo cd “L’occhio della betulla”, registrato allo Studio 2 della Rsi. Una duplicità che si può (si deve) spiegare con le parole di Santilli: «Una delle qualità del jazz sta nel poter spostare una composizione in mondi diversi, dandole altri colori».
Classe 1968, locarnese di nascita, in questi due nuovi capitoli discografici Santilli ha aperto la scatola dei suoi ricordi, lasciando uscire l’entusiasmo di gioventù. Ancor più in “La Stüa”, che ha la luce degli album fotografici nei quali abita ancora “il bambino che c’è in noi”. O, meglio, quello che c’è nell’autore: «Sì, c’è l’entusiasmo, la positività del tempo» ci racconta Marco. «Diciamo che commissionando queste canzoni, l’Alpentöne (festival internazionale che si svolge nel Canton Uri, ndr.) ha riacceso ricordi estivi di quando i turisti arrivavano dalla Svizzera tedesca e io aiutavo mio nonno con la lingua ‘straniera’». Un nonno nato nel 1909, custode di quello che sarebbe diventato il Museo della Leventina, nel quale stava appunto la stufa in muratura. «Avevo 14 anni. Quel posto era il mio rifugio». Su cd, il flashback inizia con la cinematografica “Sächsilüüte”, nata – dicono le note – “per elaborare il trauma infantile del Böögg (finto pupazzo di neve con la testa ricolma di fuochi d’artificio, tradizione zurighese un tantino truculenta nelle sue dinamiche).
A proposito d’infanzia: «A 6 anni cantavo e mio nonno mi registrava. Mi sono avvicinato alla musica con il flauto dolce, mio zio dirigeva la banda di Bodio». E il canto? «L’ho messo da parte» replica, «ma ho preso lezioni, pensando che un giorno mi sarebbe tornato utile. Ma questa è un’altra storia» (leggasi come “nuovo progetto”, dove la voce avrà il suo posto). «A Giornico ci sono cresciuto, poi a 19 anni me ne sono andato a Zurigo», racconta Santini. Ma non è il destino di chi in Ticino non trova sbocchi musicali: «In quegli anni già c’era il Conservatorio di Lugano. È stata una scelta legata alla lingua, che volevo imparare». Dicotomia Nord-Sud che è parte dei temi del musicista («È la mia tratta principale»). In fase di creazione, Santilli dice di essere ispirato da frammenti musicali. «Ma a volte basta un concetto». E molti dei concetti sono storici. Conclusa l’ouverture “Leventango” (Piazzolla spostato in Leventina), Marco ironizza in “Tangu da Wassen” (più o meno l’equivalente di “sei rock come Frank Sinatra”, ndr): «In Leventina chiamavano così le canzoni popolari svizzero tedesche».
“Morbus Helveticus” contiene estratti da “Ranz des vaches”, brano che ai mercenari elvetici era vietato intonare, affinché la malinconia non incentivasse la diserzione. “La Giornico liberata” è ispirata alla Battaglia dei Sassi Grossi, “Sette”, alle altrettante chiese di Giornico (per gli amanti dei tempi dispari). Ci sono anche “Giorni di Giornico”, musicronaca di una partitella di calcio, e le dissonanze di “Strada alticcia”, che bene riproducono le traiettorie sghimbesce di chi ha esagerato con l’alcol. Fino alla bella e mediterranea “Serenada in minur”, nata da una poesia di Giuseppe Arrigoni da Balerna. «Se per mediterraneo s’intende il Mendrisiotto – aggiunge Santilli – effettivamente è molto a sud...», conclude sorridendo.