Piemontese, classe ’55, il successo per Ludovico Einaudi non è arrivato in tenera età. Lo spartiacque tra una carriera di musicista affermato (inizialmente in ambito classico) e quella di musicista dal successo internazionale è collocabile a metà anni Novanta, nei pressi di “Onde”, album del ’96 che raccoglie ballate per pianoforte ispirate dall’omonimo romanzo di Virginia Woolf. Il progressivo riscontro di pubblico e di vendite delle sue composizioni, dal linguaggio semplice e dall’accurata ricerca sonora, ha aperto poi a un vero ‘caso discografico’, avvicinabile – per numeri, vendite e platee – a quelle di una star del pop. A proposito di altri ambiti, la performance del 2007 durante l’iTunes Festival, su un palco che prevedeva anche Oasis e Placebo, ne mostra i risvolti popolari di ampio respiro. La musica di Einaudi, che esplora in piena trasversalità mondi sonori diversi, include anche colonne sonore di film come “Quasi amici” (tra le motivazioni del cavalierato delle arti attribuitogli in Francia). L’ampia discografia è ferma al 2015 di “Elements”, con appendice in “Elegy for the Artic”, il cui videoclip (mozzafiato) sposa la causa di Greenpeace per un accordo che protegga l’Artico dallo sfruttamento e dai cambiamenti climatici.
Domani, domenica 11 giugno (ore 20.30, ticketcorner.ch), Gc Events porterà il pianista in Piazza Grande, trasformandola nell’ennesimo dei grandi teatri che l’hanno ascoltato in tutto il mondo. In questa intervista concessaci in esclusiva, Einaudi parla di musica per istantanee, scattate con un obiettivo dall’apertura massima…
Piazza Grande ha una tradizione rock. Immagino che dopo l’iTunes Festival per lei non sarà un problema…
Capisco l’allusione…ma so bene che si tratta di una piazza abituata a concerti di grande qualità, qualunque sia la musica suonata. So che c’è parecchia attenzione, un pubblico attento. Sono sicuro che sarà una bella dimensione.
In verità, la piazza ‘rockettara’ era per introdurre i suoi trascorsi jazz-rock. A pensarla mentre picchia sulla tastiera si fa una certa difficoltà. Come ricorda quei tempi?
È stato un periodo iniziato con l’adolescenza e continuato per molto tempo, un momento storico nel quale sono stato investito come molti altri dall’ondata del rock inglese e americano. Io sono sempre stato un ascoltatore a 360 gradi, ma credo che l’avvicinamento sia stato facilitato dal fatto che oltre al pianoforte suonavo la chitarra, ed ero un appassionato di blues. Ho ascoltato Beatles e Rolling Stones in adolescenza, passando dai Cream fino ad alcune cose del progressive come King Crimson, o i primi Pink Floyd.
Quanto c’è di questi ascolti in quello che ha composto e compone oggi?
C’è sicuramente l’elemento popolare, parente stretto della musica rock, con tradizioni legate al folk, al blues. Il blues, a sua volta, è di derivazione africana, cosa che apre ulteriori orizzonti musicali. Ci sono mille connessioni che ho poi sviluppato in età più matura, per esempio in Mali, dove ho avuto splendide collaborazioni artistiche, ritrovando elementi moderni nati da grandi culture antiche. La musica tende lunghissimi e bellissimi fili rossi tra epoche, tradizioni, ha una libertà di movimento che era anche prerogativa del rock, quel coraggio di creare nuove connessioni. Ecco, la mia idea di non essere accademico può arrivare proprio da quegli ascolti e da quella libertà…
Ha parlato di musica popolare. Per qualche pianista è naturale aggiungere parole alla musica. Vista la ricchezza dei contenuti letterari dai quali lei attinge, non ha mai sentito il bisogno?
Premetto subito che amo le voci e amo le canzoni. Nella musica, però, sento una libertà di lettura nei confronti della quale un testo, o un tema, a volte possono essere condizionanti. Mi sento più libero di muovermi. Così come sento che il pianoforte abbia anche un suo canto, ed è proprio attraverso il pianoforte che riesco a portare avanti la mia dimensione vocale.
Ho letto che in casa sua ci sono tre pianoforti. C’è uno strumento in particolare sul quale ama comporre?
La correggo: sono tre quelli della mia casa di campagna e due a Milano, quindi cinque. Ce n’è uno sul quale amo scrivere ed è un Bechstein che potrebbe avere la mia età (sorride, ndr), un pianoforte pieno d’imperfezioni, che però mi regala quella sensazione di scrivere su un vecchio foglio di carta. Quello strumento ha una patina molto evocativa nel suono, nonostante i suoi problemi tecnici. Va suonato molto delicatamente, ma per raccogliere le idee è perfetto.
Pianisticamente parlando, c’è stato un idolo di Ludovico Einaudi?
Ci sono stati alcuni pianisti illuminanti per me come, credo, per tutti. In ambito classico dico Glenn Gould per l’idea del canto e della precisione, dell’intenzione quasi ossessiva e maniacale che ti colpisce anche se non vuoi esserne colpito. In altri campi, ho avuto la fortuna di vedere Keith Jarrett nel periodo del concerto di Colonia (“The Köln Concert”, 1975, ndr). Rimasi colpito dal lirismo, dalla trasversalità del suo modo di suonare e di intendere la musica, così libera in quel periodo, un linguaggio senza etichette precise.
Una curiosità su quel video ‘fantascientifico’ registrato nel Mar Glaciale Artico. Ci sono blocchi di ghiaccio che si staccano e cadono a poche decine di metri da lei. Ha mai avuto paura di finire sott’acqua?
A 300 metri di distanza c’era la nave di Greenpeace, dunque non ero abbandonato. C’erano piccoli rischi quando il ghiaccio caduto in mare causava l’onda, e allora i tecnici si precipitavano sulla mia piattaforma per farmi risalire. Non ho mai avvertito il pericolo, forse lo vedevano meglio loro. Con ragione, perché ricordo un momento nel quale il ghiaccio aveva ricoperto per intero la superficie navigabile. La parte di nave dalla quale dovevo risalire era ferma in un unico blocco, così risalii a bordo dalla parte opposta, con una scaletta di corda. Un’esperienza che mi mancava…