No al permesso di soggiorno in Ticino a una minore affidata a nonni malati in Kosovo: la Corte europea dei diritti umani dà ragione alle autorità svizzere
“La Corte ritiene che le questioni sollevate dalla ricorrente – una giovane residente in Kosovo con i nonni, rappresentata dall’avvocato luganese Fulvio Pezzati, a cui è stato negato il ricongiungimento familiare col padre trasferitosi in Svizzera nel 2005 – non rivelino alcuna apparenza di violazione del suo diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”. Di conseguenza, il ricorso ai sensi dell’articolo 8 della Convezione europea dei diritti umani (‘Diritto al rispetto della vita privata e familiare’) “è manifestamente infondato e deve essere respinto. Per queste ragioni la Corte, all’unanimità, dichiara la domanda inammissibile”. La Corte in questione è quella europea dei diritti dell’uomo (Cedu), più di preciso la Quinta sezione, che con tale decisione notificata lo scorso 19 dicembre alle parti pone il punto finale a una controversia iniziata oltre 8 anni fa e che ha attraversato tutti i possibili gradi di giudizio.
Era il 5 aprile 2016 quando il padre della giovane, cittadino kosovaro con permesso di domicilio in Svizzera, ha presentato domanda di ricongiungimento familiare per la moglie sposata nel 2015, i figli avuti con lei, e la figlia avuta in precedenza e al centro della controversia. Come spiega il testo del ricorso alla Cedu redatto da Fulvio Pezzati, la bambina fin dalla nascita, nel 2003, viene affidata al padre “giacché la madre se ne disinteressa”. Quando lei ha 2 anni, nel 2005, il padre si trasferisce in Svizzera e inizia a lavorare come operaio e con lo stipendio percepito mantiene la figlia che rimane a vivere con i nonni. Con loro va poi ad abitare anche la nuova famiglia del padre. Ma mentre a quest’ultima – rispettivamente matrigna e fratellastri della ragazza – l’Ufficio della migrazione del Canton Ticino concede i permessi di ingresso e di soggiorno, con decisione del 15 giugno 2016 li rifiuta alla prima figlia, motivando che la domanda non era stata presentata in tempo utile ai sensi dell’articolo 47 della Legge federale sugli stranieri e l’integrazione, e specificando che un successivo ricongiungimento familiare poteva essere autorizzato solo se sussistono importanti motivi familiari. Ciò che secondo l’Ufficio della migrazione non era il caso poiché la ragazza, allora tredicenne, viveva con i nonni in Kosovo.
La giovane ha quindi interposto un primo ricorso al Consiglio di Stato sottolineando in particolare che i suoi nonni paterni, malati e anziani, nati nel 1938 e nel 1950, non erano più in grado di prendersi cura di lei in modo adeguato, per cui era nel suo interesse potersi stabilire con il suo nucleo familiare in Svizzera. Il ricorso, come quelli successivi al Tribunale amministrativo del Canton Ticino e al Tribunale federale (Tf), sono stati respinti. Il Tf ha confermato che i termini per presentare domanda di ricongiungimento familiare erano scaduti da tempo e che le malattie dei nonni – cardiorespiratorie, reumatiche e depressive – non avrebbero impedito loro del tutto di continuare a prendersi cura della nipote, ormai adolescente e non più bisognosa delle stesse cure e attenzioni di prima. E poiché la ragazza ha trascorso tutta la sua vita in Kosovo e non ha mai vissuto con il padre, per il Tf la decisione presa era anche nel suo interesse superiore ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia: rinunciare ai legami familiari, sociali e culturali che aveva costruito in Kosovo per trasferirsi in un Paese di cui non parla la lingua e dove non ha mai vissuto non sarebbe stata una soluzione appropriata. Mon Repos ha concluso che la domanda di ricongiungimento familiare del 2016 sembrava essere motivata dalla prospettiva di migliori opportunità educative e lavorative in Svizzera.
La giovane tramite il suo avvocato si è allora rivolta alla Cedu invocando il citato articolo 8 della Convenzione, sostenendo che il rifiuto del ricongiungimento familiare costituiva un’ingerenza sproporzionata nel suo diritto al rispetto della sua vita privata e familiare e non era nell’interesse superiore della sua in quanto bambina. Scrive Pezzati nel ricorso: “Le autorità elvetiche non hanno sufficientemente analizzato se l’assenza della matrigna che coadiuvava i nonni, oggi malati e troppo anziani, nella cura della nipote, costituisca un mutamento nelle dinamiche familiari tale per cui impedire il ricongiungimento della ricorrente con il padre in Svizzera rispetti i precetti internazionali, e in particolare non leda l’interesse superiore della minore”. Le autorità, aggiunge, “si sono limitate a considerare il banale scenario in cui un adolescente non ha più strettamente bisogno di qualcuno che si prenda cura della sua igiene o alimentazione, senza valutare se la situazione in cui la ricorrente si trova oggi corrisponde alle sue necessità educative e di sorveglianza, mancando gravemente di valutare le capacità educative e genitoriali di due persone anziane e malate”. Inoltre “è mancato un adeguato bilancio tra gli interessi in gioco – afferma Pezzati –. Infatti, le autorità elvetiche, nelle loro decisioni non hanno sufficientemente considerato il peso di questi cambiamenti e il loro impatto, mancando di elaborare un adeguato bilancio tra quelli che sono gli interessi dello Stato, ovvero il controllo sulla politica dell’immigrazione e quelli della minore, ovvero il diritto inviolabile a uno sviluppo equilibrato accanto a chi può occuparsi della propria cura, mantenimento ed educazione con la necessaria presenza e autorità”.
Nella propria valutazione, la Cedu specifica innanzitutto che “la Convenzione non include alcun diritto, in quanto tale, a stabilire la propria vita familiare in un determinato Paese”. Passando al caso specifico, la Corte si dice convinta che “sia stato attribuito un peso sufficiente al miglior interesse del minore nel rifiutare il permesso di soggiorno alla ricorrente. Nelle loro decisioni, i tribunali nazionali hanno tenuto conto del fatto che la ricorrente aveva sempre vissuto con i nonni in Kosovo e che dai documenti presentati non risulta che i nonni non sarebbero più stati in grado di prendersi cura della ricorrente”. La Cedu ritiene infine che le autorità svizzere, agendo nell’ambito del loro margine di apprezzamento, “non abbiano mancato di trovare un giusto equilibrio tra gli interessi della ricorrente, da un lato, e l’interesse dello Stato a garantire un controllo efficace dell’immigrazione, dall’altro. Né la loro valutazione è stata sproporzionata nel perseguire l’obiettivo legittimo ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione”.