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‘Senza inclusione ci sentiremmo umiliati, famiglie di serie B’

Pregi e difetti del sistema formativo ticinese in due storie. ‘Abbiamo dovuto scolarizzare nostro figlio altrove e i bimbi del quartiere non lo conoscono’

‘La nostra costante paura è che l’anno successivo o a medio termine nostro figlio venga relegato’
(Keystone)
18 ottobre 2024
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«Un po’ di tempo fa ero al parco giochi con mio figlio e sull’altalena accanto a lui si è seduto un bambino che ha iniziato a parlargli. Quando si è reso conto che mio figlio non era in grado di rispondergli, che non lo guardava negli occhi, che non era nella conversazione, è andato via un po’ spiazzato. Poco dopo è arrivato un altro bambino che ha salutato mio figlio per nome e si è messo sull’altalena vicina molto serenamente. Si conoscevano e sapeva cosa aspettarsi – mi ha detto in seguito – perché all’asilo erano compagni di classe». A raccontare l’episodio trasmettendo un toccante senso di tenerezza è Fanny Merker, mamma di un bambino di 11 anni con un disturbo dello spettro autistico caratterizzato da un deficit cognitivo importante. Docente di scuola media superiore, Fanny ben conosce sia il sistema educativo ticinese sia gli aspetti che lo differenziano da quello di altri cantoni. A seguito delle discussioni sulla scuola inclusiva innescate a inizio estate dal Partito liberale radicale nazionale che in un documento la definiva fallimentare e che ora ha presentato una mozione in cui chiede di sostituirla con classi di sostegno – mentre il presidente del Plr ticinese si è detto critico rispetto a un’evoluzione locale “sempre più inclusivista” –, la nostra interlocutrice testimonia per contro quanto proprio l’inclusione sia fondamentale per non far sentire marginalizzati e di serie B i bambini con disabilità e le loro famiglie.

‘Apprezziamo di essere sempre stati coinvolti’

«Benché la diagnosi di mio figlio sia arrivata tardi – ripercorre Fanny –, la presa a carico da parte della scuola è stata rapida ed efficace. Già a due anni e mezzo grazie ai Servizi dell’educazione precoce speciale (Seps) ha potuto frequentare un gruppetto di preasilo con bambini in difficoltà e iniziare le terapie». Anche negli ordini di scuola successivi il figlio di Fanny (che ora frequenta la prima media) è sempre stato inserito in piccoli gruppi, in quelle che si chiamano “classi a effettivo ridotto” composte da soli bambini con bisogni educativi particolari. «Sapevamo dell’esistenza di un’altra modalità, quella delle “classi ordinarie inclusive” formate da 3-4 bambini con bisogni educativi speciali inseriti in una classe regolare dotata di un docente titolare o di materia e di uno di pedagogia speciale, e inizialmente volevamo che nostro figlio andasse in una di quelle – specifica Fanny –, ma ci è stato spiegato che per lui sarebbe stata inadeguata e frustrante a causa della sua alta sensibilità al rumore e al movimento, nonché dal punto di vista cognitivo. Devo dire che abbiamo sempre molto apprezzato il tentativo da parte dei vari servizi e dei direttori scolastici di farci capire le difficoltà così come le qualità di nostro figlio senza trascurare di coinvolgerci nelle decisioni, che per noi era fondamentale comprendessero l’aspetto dell’inclusione».

‘Per i compagni aiutarlo è molto valorizzante’

Inclusione che si è concretizzata nella possibilità per il figlio di Fanny di fare i cosiddetti “inserimenti”, ovvero frequentare con una classe parallela alcune lezioni come educazione fisica o musicale, e di compiere delle uscite insieme. «Grazie alla buona collaborazione tra docenti ha potuto fare queste esperienze che sono state molto positive anche per gli altri bambini entrati in contatto con la disabilità» considera Fanny, esemplificando: «Quando portavo mio figlio all’asilo, nella classe regolare c’erano sempre sulla porta tre bimbette con le mani sui fianchi ad aspettarlo: “Vieni – gli dicevano –, mettiamo le pantofole, andiamo a giocare”. Per loro era molto valorizzante poterlo aiutare. Grazie a incontri del genere gli allievi sviluppano delle competenze che altrimenti a scuola non vengono realmente sperimentate come la solidarietà, il mettersi nei panni di chi è in difficoltà, il cercare soluzioni, crescendo nell’idea che siamo tutti diversi e che questo non è negativo».

Oltregottardo, i bambini con bisogni educativi particolari «sono perlopiù messi in sedi a sé stanti, quasi come se si volesse nascondere la disabilità», afferma Fanny, evidenziando che anche alle nostre latitudini, benché il modello ticinese sia considerato il più sviluppato sul piano nazionale, ci sono genitori e politici spaventati dalla disabilità e dal fatto che nella scuola inclusiva l’insegnamento possa venir rallentato o livellato verso il basso. «Ma non è così», dichiara argomentando: «Nel 2021 è stato pubblicato uno studio dell’Università di San Gallo il quale dimostra scientificamente che se in una classe c’è una percentuale del 15-20% di bambini con disabilità – che è il limite massimo in Ticino – questo non ha nessun impatto negativo sull’apprendimento degli altri».

‘Ha detto: già stanno stretti i nostri. I nostri?’

Non ci sono però solo elogi per il sistema del nostro cantone. Una grande nota dolente messa in luce da Fanny è costituita dal fatto che «ancora troppi bambini devono passare tempo eccessivo sui trasporti perché il Comune in cui vivono non li scolarizza». Le scuole speciali, spiega, «sono di competenza del Cantone, ma è facoltà dei Comuni che dispongono delle aule scolastiche dire “non abbiamo posto”. E in quei casi i bambini vengono delocalizzati. So di un gruppo di ragazzi con bisogni educativi particolari delle Medie di Arbedo-Castione che è stato spostato a Lodrino, il che costituisce una discriminazione sulla base della loro disabilità. Giustificando il trasferimento una mia conoscente che fa la docente in quella sede mi ha detto: “Qui abbiamo a malapena posto per i nostri”. I nostri...? È stata una sberla in faccia».

Il figlio di Fanny è sempre andato a scuola nel proprio comune di domicilio, Bellinzona, ma i genitori hanno dovuto lottare affinché ciò avvenisse. «Quando era in terza elementare, subito dopo la prima ondata di Covid, l’ispettore scolastico ci ha convocati dicendo che non c’era più spazio per le due classi di scuola speciale e che nostro figlio sarebbe dovuto andare a Sant’Antonino. Questo avrebbe comportato alzarsi prima, tornare più tardi, spostarsi e stare lontano da casa più a lungo, ciò che per bambini come lui ha un impatto molto grande. Capisco che possano esserci dei minimi spostamenti, ma non oltre il comune vicino. Non è possibile che la qualità di vita di questi bambini e delle loro famiglie vada a peggiorare per questioni di logistica risolvibili, come è stata risolvibile a Bellinzona. Gli spazi si trovano se c’è la volontà. Anche perché – e questo è un aspetto che Fanny tiene particolarmente a sottolineare – l’inclusione ha senso quando viene fatta dove si vive. I bambini che vanno a scuola con mio figlio sono gli stessi che incontriamo quando andiamo a spasso, a fare la spesa, al parco giochi e che lo salutano e sanno come relazionarsi con lui». È necessario, afferma Fanny, «che i Comuni si assumano delle responsabilità nei confronti di tutti i bambini del loro territorio. In caso contrario a pagarne il prezzo continueranno a essere quelli più vulnerabili, a cui si dovrebbe prestare ancora più attenzione perché non hanno le risorse di adattamento degli altri, ma a cui viene spesso chiesto un sacrificio più grande. È come se si dicesse “questo bambino è disabile e non investiamo sul suo futuro, tanto il Cantone lo manderà dove c’è posto”. Francamente – conclude Fanny – non ci serve anche questo tipo di umiliazione, la nostra vita è già abbastanza complicata così».

‘Abbiamo vissuto una vera e propria Odissea’

Alle parole di Fanny fanno eco quelle di Gaia e Mattia, genitori di Ulisse che a breve compirà 10 anni, frequenta la quarta elementare e ha la sindrome di Down. «Di dispiaceri ne abbiamo avuti tanti», afferma Gaia riferendosi in particolare alla ricerca di una classe inclusiva adatta a loro figlio. Ricerca che, «è proprio il caso di dirlo, è stata una vera e propria Odissea. Alla fine siamo giunti a una soluzione che ci soddisfa, ora Ulisse si trova a suo agio e non è isolato dagli altri, ma rimaniamo davvero preoccupati che queste due condizioni in futuro vengano a mancare».

Fin da quando Ulisse era piccolino i genitori hanno voluto puntare molto sulla sua inclusione, «fondamentale per un suo miglior sviluppo cognitivo e sociale». Dopo aver frequentato contemporaneamente il preasilo Atgabbes e la Culla San Marco, quindi la scuola Steiner, è andato alla scuola dell’infanzia a Giubiasco in una classe inclusiva «perché l’asilo che abbiamo a 20 metri da casa e a cui ci siamo rivolti non lo ha preso», dice amareggiato Mattia, che raccontando di quel periodo tutt’altro che facile rileva: «I primi sei mesi sono andati abbastanza bene, si era instaurato un ottimo rapporto con una delle docenti. Ma poi è arrivato il Covid e quando Ulisse è tornato a settembre, questa maestra era stata spostata e molti compagni erano cambiati. Ricordo che il giorno del rientro all’asilo era entusiasta, ma quando siamo arrivati là ha fatto il giro dell’aula ed è uscito completamente spaesato perché non si ritrovava».

Oltre al venir meno di una continuità che per bambini come Ulisse è fondamentale, in termini di inclusione ci sono altri aspetti che non hanno affatto funzionato, indica la mamma: «Abbiamo notato che spesso lui e gli altri due bambini con bisogni educativi particolari venivano tolti dalla classe per fare attività separatamente, c’era quindi una sorta di esclusione interna. Addirittura una volta in un colloquio una maestra ci ha detto che vedendo Ulisse buttare le cose per aria secondo lei forse quello non era il posto giusto per lui. Insomma, a nostro parere mancavano sia la competenza che la fiducia nell’inclusione, pensiero che pare diffuso fra i docenti, anche di scuola speciale».

In quel periodo Ulisse era reduce da una piccola operazione alla gola che lo ha portato per alcuni mesi a smettere di parlare. «Come conseguenza alla difficoltà di comunicare, ma anche al fatto che non si trovava bene all’asilo, è molto peggiorato l’atteggiamento oppositivo – spiega Mattia –. Era faticoso portarlo all’asilo, si buttava per terra, non collaborava nemmeno a casa, e perfino uscire a fare una passeggiata era diventato complicato. Alla fine abbiamo chiesto un anno di rallentamento ma ci è stato negato con la controproposta di inserirlo in una classe di scuola speciale». Proposta con cui i genitori di Ulisse non erano d’accordo e così hanno iniziato a cercare altre soluzioni, sondando varie possibilità in tutto il Ticino presso istituti e scuole private, senza però trovare la sperata accoglienza.

‘Non ci siamo rassegnati, ma non è per tutti’

Poi finalmente la svolta: «Abbiamo parlato con il responsabile della Sezione della pedagogia speciale del Dipartimento educazione, cultura e sport (Decs) che ci ha indicato la scuola elementare di Sant’Antonino dove esiste un progetto di sede inclusiva». Significa, spiega Gaia, che c’è una classe a effettivo ridotto molto aperta, con i bambini che fanno degli inserimenti in quelle ordinarie e, viceversa, dei gruppetti che vanno a lavorare con i bambini della classe speciale. «Le maestre sono estremamente competenti e lavorano insieme con convinzione», annota il papà, mettendo però in evidenza che «siamo arrivati alla soluzione migliore per Ulisse perché non ci siamo rassegnati a quanto ci è stato detto da alcune figure di riferimento, anche in altri ambiti come quello della logopedia, grazie al fatto che abbiamo una certa formazione e certi mezzi. Fa arrabbiare pensare che ci sono famiglie, magari provenienti da altri Paesi o senza le conoscenze e le risorse necessarie, in balia di certe valutazioni e decisioni opinabili che condannano i loro figli a una vita limitante».

Adesso Ulisse va a scuola felice. «Non viene via dalla classe regolare se non sono i bambini ad accompagnarlo, e stare con loro gli dà slancio anche nell’apprendimento», dice Gaia, con un entusiasmo subito smorzato da un “ma”. «Ma non siamo affatto tranquilli per quello che ci aspetta, perché da altri genitori di bambini con sindrome di Down sentiamo storie scoraggianti. La nostra costante paura è che l’anno successivo o a medio termine Ulisse venga relegato. Temiamo che gli sia concessa l’istruzione inclusiva solo a patto che raggiunga determinati risultati e che se questo non avviene, la scuola desista dall’insegnargli a leggere e scrivere limitandosi a far sì che impari a vestirsi da solo, ad andare al gabinetto, a prendere il bus. Sarebbe oltremodo riduttivo».

‘La strada è giusta ma irta di ostacoli’

La visione portata avanti dal Decs, anche col documento presentato lo scorso giugno dal titolo “Inclusione e accessibilità nel sistema scolastico ticinese”, secondo Mattia «procede sulla giusta strada, che però è ancora piena di ostacoli sia interni che esterni. Da un lato serve un grande lavoro dal punto di vista organizzativo, di sensibilizzazione e di formazione dei docenti. Dall’altro a remare contro ci sono certe esternazioni politiche e un Cantone che invece di investire attua misure di risparmio ulteriormente aggravate dal nuovo Preventivo». Il Ticino, aggiunge Mattia, viene visto come un esempio a livello svizzero per la scuola inclusiva, «e lo è – concorda –, ma rispetto ad altri Paesi c’è ancora molto da fare. Esiste una marcata difficoltà a uscire dalla comfort zone e questo compromette il futuro di alcuni bambini», sostiene il papà di Ulisse, che come sua moglie è insegnante e che ha anche esperienza in classi inclusive come docente di materia. A tal proposito sottolinea: «Spesso la docente di pedagogia speciale è un prezioso supporto non solo per gli allievi con bisogni educativi particolari ma pure per quelli che hanno altri tipi di difficoltà, e sono sempre più numerosi».

Anche Gaia e Mattia si dicono infine estremamente delusi dalla mancanza di capillarità delle soluzioni scolastiche inclusive a causa della quale si devono quotidianamente spostare: «Qui si apre un altro grande capitolo che è quello dei diritti dell’infanzia che sembra non riguardino i bambini con disabilità – si rammarica Gaia –. A Sant’Antonino Ulisse viene salutato dagli altri bambini che gli vanno incontro, lo aiutano, non lo guardano in modo strano, e lui è contento. Nel nostro quartiere questo invece non avviene, lo conoscono quasi solo gli adulti e non assistiamo a vere interazioni con altri bambini perché è stato dislocato per la scolarizzazione. E questo – commenta Gaia con un tono che riflette la sua conclusione – è molto triste».