Il direttore del Decs traccia il bilancio delle sue tre legislature, tra progetti e riforme, testardaggine e importanza di un socialista in governo
«Sono stati 12 anni veramente al galoppo, entusiasmanti, anche con delle difficoltà. Per me è stato un lavoro arricchente e un grande privilegio conoscere il Ticino in maniera dettagliata e sotto tanti punti di vista». È un Manuele Bertoli sereno ma con la ferma intenzione di fissare «quanto è stato fatto in questi anni» quello che convoca la stampa per il proprio bilancio delle tre legislature alla guida del Dipartimento educazione, cultura e sport. Legislature dove i dossier sono stati tanti e «condotti sulla base di obiettivi chiari». Le molte discussioni – basti pensare a ‘La scuola che verrà’ – «erano prevedibili – rimarca Bertoli –, ma non dovevano e non devono essere mai un elemento per bloccare le cose. Se serve un momento di riflessione per approfondire in maniera oggettiva un tema è giusto e doveroso, ma se serve per tirarla lunga, per non decidere o per altre ragioni questo comincia a non andare più bene».
In tutto questo, però, «ho sempre avuto un buon sostegno da parte del governo nelle politiche portate avanti». Partendo da una condizione di minoranza in Consiglio di Stato, ed essendo esponente di un'area che è minoritaria in Gran Consiglio. Proprio da questo siamo partiti quando l'abbiamo avvicinato a margine della conferenza stampa.
Lo slogan che l'ha accompagnata alle cantonali del 2019 era ‘Un socialista in governo fa la differenza’. Lei in cosa pensa di esserci riuscito?
Un governo, come tutti i gruppi composti da poche persone che si trovano a gestire insieme le cose, vedono i rapporti personali diventare più importanti delle singole opinioni. Ho avuto occasione di confrontarmi con colleghe e colleghi di cui mi sono sempre fidato perché li sentivo veri e sinceri, altri un po’ meno e quindi sono stato più guardingo. Ma se alla fine si lavora insieme, al di là delle visioni politiche è importante trovare qualcosa su cui si possa convenire. Allora si tratta di mettere sul piatto quell'elemento che può essere più o meno pesante e dire che, su un dossier che magari non si condivide, può essere data l'adesione a patto che “a, b, c” vengano soddisfatte. Non è un ricatto, è la ricerca di un minimo comun denominatore che possa portare tutti a dire che va bene e quindi a sostenere una cosa anche se non si è del tutto convinti. Un governo totalmente a destra o a sinistra non avrebbe questa peculiarità del raccogliere tutti i punti di vista, è uno degli elementi positivi del sistema svizzero e del vituperato consociativismo.
Un esempio che può ricordare?
Le discussioni sulle questioni relative agli stranieri. A un certo punto si arriva a dire che la legge è quella, io ho sempre detto che fa schifo ed è da cambiare, ma va rispettata. Però c’è modo e modo di fare le cose, c‘è un margine d'apprezzamento, e la presenza di un socialista in governo credo sia stata e sia molto importante. Non solo su questo tema.
Dagli avversari politici, e a volte da esponenti del suo partito, si è preso spesso del ‘testardo‘. Ripensando a questi anni non si è mai chiesto se magari smussando qualche angolo sarebbe riuscito a ottenere di più dalla sua azione politica in governo?
Non ho mai rinunciato alla mia testardaggine, anche se avrò fatto degli errori per carità. Alla fine ognuno è fatto come è fatto, e bisogna essere più spontanei e naturali possibile. Chi mi ha scelto e votato sapeva come ero e sono, il pacchetto era ben noto (ride, ndr). Poi, di base, è difficile sapere quanto davvero le cose sarebbero potute andare diversamente. Quando ho insistito, l'ho fatto perché non avevo la sensazione si potesse trovare un accomodamento a metà strada, perché si stava entrando in una logica dove tutto si snatura o si blocca. Quella che ho avvertito molto spesso è la volontà appunto di bloccare le cose, tutte le parole o la retorica che accompagnavano servivano semplicemente a fermare i dossier. E io mi son sempre detto di tirare dritto, poi andrà come andrà. C’è ancora una lunga serie di temi bloccati, per fare un esempio esterno al Decs basti pensare al Palazzo di giustizia di Lugano e all'acquisto dello stabile ex Efg. È una vergogna. Da quanti anni è fermo questo progetto? Bisogna saper prendere delle decisioni, quel tirar per le lunghe, girando intorno alle cose, l'ho sempre trovato insopportabile. Sarò testardo, per carità, ma questa per me è una cosa assolutamente non politica.
Lei ha fatto 12 anni di Gran Consiglio e 12 di Consiglio di Stato. Come ha visto cambiare il Ticino in questi quasi 25 anni?
Alla fine degli anni 90 avevamo un Cantone con una serie di infrastrutture diverse e arretrate, pensiamo solo alla rivoluzione e al cambiamento radicale portato dall'apertura delle due gallerie di base che hanno modificato il concetto di mobilità. 25 anni fa in Gran Consiglio i discorsi erano proprio da Novecento, dove il treno era quella cosa presa da studenti e poi mai più utilizzata perché c'era la macchina. Oggi è tutto cambiato e soprattutto i giovani hanno un altro concetto, fortunatamente. Poi è cambiato molto anche il mondo del lavoro, allora la piazza finanziaria era ancora forte, c'era il segreto bancario anche se cominciava già a scricchiolare. Però il Ticino è un cantone resiliente, ha saputo trovare una serie di occasioni e possibilità dal profilo economico. Ma politicamente, purtroppo, è un cantone ancora piuttosto ripiegato su sé stesso, questo non è cambiato, ed è un peccato perché ci sono molte possibilità che possono aprirsi se non ci si chiude in stereotipi che perdurano in maniera anche incomprensibile. Come la questione dei frontalieri: per certi versi costituiscono un problema, perché ci sono aziende che offrono lavoro a salari più bassi. Ma sono un elemento centrale della nostra economia, che è più grande del nostro cantone. Questa cosa bisogna riuscire a capirla.
Che poi ripercorrere 12 anni di mandato in un'ora abbondante di conferenza stampa non sia cosa semplice, va da sé. Tanti sono stati gli aspetti toccati da Bertoli: dalla formazione alla cultura. Per quanto riguarda la scuola, «la decisione è stata di porre subito l'accento sulla scuola dell'obbligo, contrariamente alla precedente direzione del Decs che era più improntata sul terziario scolastico, sulla Supsi e sull'Usi». Sulla cultura, invece, «non avevamo un sistema vero, c'erano solo delle prassi senza leggi né regolamenti. Portare a casa una Legge cantonale sulla cultura è stato importante, così come gestire la questione dei musei e delle biblioteche».
La scuola dell'obbligo ha goduto di molta attenzione perché «gli allievi hanno diritto di scegliere e di sbagliare. Si sono visti confrontati con concetti come l'orientamento perché l'economia ha bisogno di questa o quella professione, col ‘pericolo’ che poi i ragazzi scelgano altro, boccino... Penso sia molto importante che siano i ragazzi a scegliere quello che sarà il loro futuro».
Si è puntato molto su ‘La scuola che verrà’, si diceva. Progetto «che si è fermato davanti al voto popolare, anche se vorrei ricordare che al di là delle grandi discussioni in parlamento aveva trovato una larga maggioranza. Il voto popolare fu chiamato su un decreto di finanziamento mai utilizzato per le sperimentazioni, fu un'invenzione della commissione che appose la clausola referendaria. Posso però dire – sottolinea Bertoli – che una parte non insignificante di quel progetto è stata recuperata in altre forme e modi. Nel 2020 il Gran Consiglio ha approvato la riduzione degli allievi per classe, adesso partirà la sperimentazione sul superamento dei livelli, abbiamo potenziato i laboratori. Passi avanti sono stati fatti, come l'essere arrivati a tre piani di studio per la scuola dell'obbligo a livello nazionale partendo dai 26 che c'erano».
Per il post obbligo, l'accento viene posto «sulla decisione riguardo l'obbligo formativo fino a 18 anni, e la griglia oraria del liceo che è stata accolta da urla e grida ma poi ha avuto un buon successo».
Sul fronte culturale, invece, «il Forum per l'italiano in Svizzera è stato un successo. Cambiamenti non da poco hanno giovato alle Biblioteche cantonali, con una direzione unica. È stata varata la legge sul sostegno alla cultura». E, nel concreto, «c‘è stata la creazione del Museo d'arte della Svizzera italiana, una delle prime sei o sette realtà nazionali per l'arte». Parlando di musica, «l'Orchestra della Svizzera italiana ha cambiato pelle. Oggi è piuttosto autonoma, certo va sempre sostenuta ma siamo passati dall'idea di un'orchestra sotto il cappello della Ssr a un'orchestra con un'identità forte e questo è un elemento importante per il Cantone. La discussione è quanto deve essere il Cantone e quanto la Città di Lugano a sostenerla».
Sempre in ambito culturale, «la pandemia ha fatto emergere la precarietà del settore. E anche la Confederazione deve ragionare in che termini cambiare le condizioni quadro per sostenere il lavoro degli artisti. Ma, sempre durante la pandemia, abbiamo erogato parecchi aiuti per fare in modo che chi è attivo nel campo culturale potesse rimanere a galla».
Ed è così che tra la digitalizzazione della scuola e quanto fatto per le scuole comunali, tra progetti compiuti e altri un po’ meno, tra soddisfazione e qualche «peccato...» che ogni tanto viene pronunciato, Manuele Bertoli prende congedo. Con l'ultima immagine delle molte slide proiettate alle sue spalle che rappresenta senza alcun titolo o testo il cosmo, un orizzonte piuttosto vasto per chi tra pochi giorni chiuderà la propria carriera politica.