Il permesso alla riesportazione, sostenuto dal Ps svizzero, non piace a quello ticinese. Carobbio: ‘Intensificare la diplomazia’
La guerra in Ucraina continua a far discutere la sinistra. Il problema, stavolta, è la riesportazione verso Kiev di materiale bellico di produzione elvetica in mano ad altri Paesi. Finora la Svizzera, come diversi altri Stati europei, vendeva armi e munizioni vincolandole al divieto di ‘girarle’ a terzi, per evitare che finissero in mano a despoti o terroristi. Lo stesso faceva la Germania, che però ha cambiato idea: la minaccia russa alle porte dell’Europa è giudicata troppo grave per attenersi alle vecchie regole. La settimana scorsa, anche la Commissione della politica di sicurezza del Consiglio nazionale ha raccomandato di autorizzare la riesportazione, modificando l’articolo 18 della Legge federale sul materiale bellico (per inciso: una maggioranza al plenum è tutt’altro che scontata e prima della modifica definitiva potrebbero volerci anni).
La mozione sostiene comunque la riesportazione solo in presenza di una palese violazione del divieto internazionale sull’uso della forza riscontrata a maggioranza dall’Onu, e richiede un ulteriore via libera finale dal Consiglio federale. L’idea viene però dal Partito socialista, e poco importa se si è trattato di un compromesso per evitare una più radicale proposta del Plr: parecchi esponenti della sinistra, dentro e fuori il Ps, hanno subito denunciato l’apertura d’un pericoloso "vaso di Pandora" (parole del giurassiano Pierre Alain-Fridez, consigliere nazionale socialista). Si temono anzitutto la perdita della neutralità, la corsa agli armamenti, le compravendite ‘conto terzi’ anche al di fuori del contesto ucraino e il cedimento alla pressione di coloro – in primis tedeschi, spagnoli e danesi – che vorrebbero mandare a Kiev i blindati e le munizioni svizzere già in loro possesso.
Anche alcuni membri del Ps ticinese hanno fatto sentire la loro voce. In una dura lettera inviata al capogruppo alle Camere federali Roger Nordmann, il vicepresidente cantonale Adriano Venuti e i membri di direzione Martina Malacrida e Niccolò Mazzi-Damotti si dicono "parecchio colpiti dalla decisione": "Ci ha deluso leggere il comunicato stampa firmato da Brigitte Crottaz (consigliera nazionale Ps vodese, ndr) con il quale il Partito Socialista Svizzero rivendica la paternità di questa proposta".
I firmatari ricordano il programma del partito, nel quale si legge che "il Ps rifiuta l’idea di perseguire con mezzi militari una politica di pace e di sicurezza" e "si impegna per un rigido divieto delle esportazioni di armi". Venuti e cofirmatari ribadiscono infine il loro "fermo disappunto per questo grave scollamento tra le declamazioni programmatiche e la pratica parlamentare", e auspicano che "al momento della votazione in seduta plenaria la posizione dei rappresentanti del nostro partito sia coerente con quanto enunciato nel nostro programma, quindi rigidamente contraria all’esportazione di armi".
Alla nostra richiesta di replica Nordmann ha opposto un no comment, spiegando che lo scambio è da intendersi come privato (in realtà la presa di posizione ticinese è stata pubblicata come "lettera aperta" sui social e sul suo sito dal Ps locale). Venuti, da parte sua, precisa a ‘laRegione’: «Sia chiaro, non si tratta di dividersi tra sostenitori dell’Ucraina e sostenitori della Russia. L’importante è dialogare all’interno del partito sul tema dell’esportazione di armi, finora sempre rifiutata dalla nostra impostazione programmatica».
In merito alle critiche formulate, il copresidente cantonale Fabrizio Sirica spiega: «Mi pare che sia legittimo esprimere apertamente le diverse sensibilità all’interno del partito. La questione non è di facile soluzione e penso che prima di maturare una presa di posizione univoca occorra un dibattito serio e approfondito tra le valide argomentazioni di entrambe le parti. Il nostro programma offre comunque oggettivamente una serie di linee guida in materia».
È su frequenze simili la consigliera agli Stati e candidata al governo cantonale Marina Carobbio: «Credo che la recente proposta meriti una discussione in seno al gruppo parlamentare socialista alle Camere federali, discussione che suppongo si terrà come di norma a breve. Sono da sempre contraria all’esportazione di materiale bellico verso Paesi in guerra, ma anche verso Paesi che poi a loro volta li esportano in zone di guerra. Resta d’altronde da chiedersi cosa fare di fronte a una guerra d’aggressione del tutto illegale, per questo ben venga una discussione franca e approfondita. Penso che invece di esportare armi, la Svizzera debba piuttosto intensificare gli sforzi diplomatici. Intanto va ricordato che la proposta socialista mirava a bloccare quella liberale, che avrebbe pericolosamente allentato le restrizioni alle esportazioni d’armamenti tout court».
Compatti appaiono i Verdi, la cui assemblea dei delegati ha già nettamente bocciato qualsiasi via libera alle riesportazioni. «Resto convinta che non si stiano tenendo davvero in conto tutte le implicazioni di una scelta del genere, anzitutto per quanto concerne il nostro statuto di Paese neutrale», osserva la consigliera nazionale Greta Gysin: «Sul piano del diritto internazionale, tale neutralità comporta sì dei diritti quali l’inviolabilità del proprio territorio, ma anche dei doveri che includono l’uguaglianza di trattamento nell’esportazione di materiale bellico verso Stati in guerra. Bisognerebbe allora fare un ragionamento più ampio chiedendoci, con onestà, che futuro possiamo concepire per la nostra neutralità: solo una volta fatto questo si potrà eventualmente decidere sulla questione della fornitura di armamenti».
Insomma, per Gysin «non possiamo essere noi ad armare l’Ucraina, perché metteremmo a repentaglio alcune nostre prerogative ben più importanti per costruire la pace, quali i buoni uffici diplomatici e l’aiuto umanitario. Dovremmo semmai agire con fermezza sui fondi russi: è ipocrita parlare di riesportazione, lavandosi la coscienza ma sapendo che dei duecento miliardi di fondi russi depositati in Svizzera, solo otto sono davvero bloccati. Potremmo anche regolamentare in modo più stringente il commercio delle materie prime russe, che passa per l’80% dalla piazza commerciale elvetica: toglieremmo fondi all’invasione».
Al fronte del no si aggiunge il ForumAlternativo, i cui esponenti sono presenti nella lista Ps per il Gran Consiglio. Per Franco Cavalli «al di là del discorso sull’Ucraina, e senza essere fanatico d’una neutralità che ha permesso anche affari molto sporchi, credo che la riesportazione non sia possibile: la legge impedisce di vendere armi a Paesi in guerra anche tramite Stati terzi, e come per quella in Iraq e altre guerre, tale divieto vale anche in presenza di violazione dei diritti umani». Sebbene per diversi esperti il divieto alla riesportazione non sia direttamente legato alla neutralità, tanto che anche la Germania osservava qualcosa di simile fino a poche settimane fa, per Cavalli una decisione dettata dall’emergenza ucraina comporterebbe un rischio: «Seguire un percorso simile a quello intrapreso coi rifugiati, quando la gelida Karin Keller-Sutter, da ministra della Giustizia, ha steso il tappeto rosso agli ucraini, ma non ai profughi di altre guerre. Non si possono applicare due pesi e due misure».
Parere seccamente negativo, infine, dal Partito Comunista, che peraltro sosterrà l’iniziativa Udc per la neutralità integrale, mirata a impedire anche l’adozione di sanzioni economiche. «Il nostro è un Paese che dovrebbe rimanere neutrale: una riesportazione invece, anche se costituisce una vendita solo indiretta, corrisponde a schierarsi da una sola parte in un conflitto internazionale», osserva il segretario politico e granconsigliere comunista Massimiliano Ay. Che aggiunge: «Questo non solo lede la neutralità, ma mette anche in pericolo la nostra sicurezza nazionale, perché ci stiamo schierando in una guerra che non ci compete. La nostra è una posizione coerente nel tempo: a differenza del Ps, siamo sempre rimasti allineati all’iniziativa per il divieto di esportazione di materiale bellico, sostenuta tre anni fa da tutta la sinistra».
Di avviso diametralmente opposto è invece il Movimento per il socialismo, che dallo scoppio del conflitto condanna fermamente l’imperialismo russo e sostiene le rivendicazioni di Kiev. Il granconsigliere Mps Matteo Pronzini lo ribadisce: «Siamo fin dall’inizio per il diritto all’autodifesa da parte del popolo ucraino, anche con le armi; nel contesto di questa invasione non può difendersi a mani nude. Pertanto non sono contrario alla fornitura delle armi, e se questa a sua volta richiede la riesportazione, tale riesportazione andrà approvata».
Dall’altra parte dello spettro politico, anche l’Udc – promotrice dell’iniziativa per la ‘Salvaguardia della neutralità svizzera’– ha duramente contestato le proposte relative alla riesportazione provenienti non solo dal Ps, ma anche da Plr e Centro. Stando però alle testate del gruppo Ch Media, "dietro le quinte si prepara la svolta": il ‘senatore’ democentrista bernese Werner Salzmann, presidente della Commissione della politica di sicurezza degli Stati, vorrebbe infatti consentire agli acquirenti della Svizzera di rivendere i loro armamenti. Ad alcune condizioni, però: solo dopo un minimo di cinque anni dall’acquisto e purché il permesso si applichi solo ai 25 Paesi inclusi nell’ordinanza sul materiale bellico (numerose nazioni europee, Usa, Australia e Giappone).
Per Salzmann il divieto di riesportazione non è direttamente legato alla neutralità, e il cambiamento va pensato "nell’interesse dell’industria bellica svizzera", un settore che arriva a contare fino a 30mila addetti. Il consigliere agli Stati pare anche dare ascolto al timore diffuso negli ambienti vicini alla Difesa: eventuali rappresaglie commerciali contro la ‘rigidità’ svizzera, specie da parte della Nato, potrebbero impedire all’esercito confederato di ottenere a sua volta gli equipaggiamenti necessari alla "neutralità armata", concetto caro alla stessa Udc.
Non è d’accordo il granconsigliere democentrista Sergio Morisoli, che sulla questione è netto: «Neutralità e fornitura di armi non possono essere tenute distinte, ed è essenziale non cambiare le regole – finora paganti per la Confederazione – proprio in una fase di conflitto e pressioni come questa. È anche una questione di metodo: sarebbe un errore fare dei distinguo tra forniture dirette e indirette – fingendo di non capire dove arriveranno comunque le armi – e buttare così alle ortiche la neutralità. Questo peraltro», prosegue Morisoli, «sapendo già che i tempi decisionali saranno lunghi: paradossalmente quindi metteremmo a rischio la nostra reputazione senza neppure riuscire a ottenere una decisione rapida». Vada come vada, «la Svizzera si è sempre tenuta alla larga dai conflitti, pur senza esserne indifferente. Da troppi anni però, a mio avviso, ha abdicato al suo ruolo di mediatrice diplomatica, anche nel tentativo di entrare nell’Ue e scendere a patti con le grandi organizzazioni mondiali. La neutralità invece è qualcosa da costruire e mantenere».