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L’impresa sostenibile, tra marketing e realtà

A colloquio con l’economista Marialuisa Parodi sulla cosiddetta ‘finanza Esg’, basata cioè su rating di adeguatezza ambientale e sociale

MLP
10 agosto 2022
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"Tre lettere che non salveranno il mondo". È titolato così un recente editoriale dell’Economist dedicato alla cosiddetta finanza Esg: quella cioè che investe su attività giudicate sostenibili sul piano dell’ambiente (‘e’ per ‘environment’), sociale (la ‘s’) e gestionale (la ‘g’ sta per governance). Il settimanale inglese – spesso definito con una certa pigrizia intellettuale, ma senza tutti i torti ‘la Bibbia del capitalismo’ – ritiene che gli indici Esg siano sostanzialmente ciarpame: cercando di misurare contemporaneamente cose diverse come le emissioni di anidride carbonica e la presenza femminile in azienda, il rispetto dei fornitori e la compatibilità tra lavoro e vita privata, metterebbero insieme mele con pere finendo per sparare numeri a caso, buoni al massimo per il marketing e il greenwashing, ovvero la tendenza da parte di certe aziende a spacciarsi per ecologiche quando non lo sono. Ma è davvero tutto da buttare? E a che punto siamo in Ticino e nel resto della Svizzera? Ne discutiamo con l’economista ed esperta di finanza Marialuisa Parodi, condirettrice di Equi-Lab, associazione ticinese che offre servizi di consulenza in materia di pari opportunità e conciliabilità lavoro-famiglia.

Davvero gli indici Esg – dunque le classifiche di sostenibilità che ne scaturiscono e che stanno orientando sempre più investitori – sono qualcosa di inutile?

Non esageriamo. Allo stato attuale si tratta effettivamente di un bel pasticcio, anzitutto per una ragione: si è data assoluta priorità alla ‘e’ – il criterio di sostenibilità ambientale – sugli altri aspetti da valutare, dimenticando che risultati ecologici davvero ‘verdi’ non saranno mai seriamente raggiungibili senza un cambio di governance e di approccio sociale. In altre parole: se in un’impresa il Consiglio d’amministrazione risponde solo ad azionisti interessati a profitti sul breve termine, se l’ansia del risultato immediato preordina l’azione dei manager, se l’impresa non offre ai suoi lavoratori e lavoratrici un ambiente che stimola l’innovazione e il confronto, allora sarà anche difficile ottenere grandi risultati sul piano ambientale. Eppure vediamo che nello standard internazionale degli indici di sostenibilità – e in Ticino, ad esempio, la nuova legge per gli appalti pubblici non fa eccezione – la variabile che pesa maggiormente è quella verde, senza incentivare davvero gli altri aspetti della responsabilità sociale d’impresa. Però bisogna fare attenzione a non gettare il bambino con l’acqua sporca: il fatto che oggi l’approccio sia sbilanciato non significa che vi si debba rinunciare. Si tratta semmai di capire come ciascuno dei tre elementi – ambiente, sostenibilità sociale e gestione d’impresa – siano indissolubili, e come la loro valutazione si possa armonizzare riordinando le priorità.

‘Responsabilità sociale d’impresa’, ‘sostenibilità’, ora ‘Esg’: non sono solo figure retoriche, buone per quei prospetti patinati coi manager che abbracciano gli alberi?

No, ancora una volta non bisogna esagerare e neanche pensare che tutte le imprese utilizzino certi criteri solo per farsi pubblicità. Anche in Ticino ci sono molte aziende che si rivolgono a noi preoccupandosi sinceramente di questi aspetti, perché sanno che tanto la loro possibilità di trattenere talenti – dunque di crescere e innovare – quanto la loro posizione rispetto alla società e ai consumatori dipendono molto da questi sviluppi a lungo termine. Il fatto stesso che si sia avviato un dibattito pubblico sulla responsabilità sociale d’impresa è già di per sé il segno di un’importantissima presa di coscienza.

Oltre a subire alcune tendenze globali – la necessità di competere su scala internazionale, l’inclinazione al profitto a breve termine di certi grandi investitori –, il Ticino presenta delle specificità che potrebbero fungere da ulteriore ‘incentivo a deviare’ rispetto alla sostenibilità Esg: storicamente, ad esempio, la disponibilità di manodopera a basso costo dall’estero incoraggia filiere a basso livello di innovazione.

Non solo questo, ma anche molti altri fattori incidono negativamente su alcune variabili rispetto alle quali resta ancora moltissimo da fare, ad esempio la qualità dell’ambiente di lavoro, l’adeguatezza della remunerazione, per non parlare della condizione femminile. E anche qui da noi, per ora, la responsabilità d’impresa è considerata quasi come un sinonimo di ecologia e poco altro. Tuttavia, come detto, c’è una rete sempre più fitta di imprese che guarda oltre. Aziende che puntano a un equilibrio non solo ambientale, ma anche lavorativo, di genere, nelle relazioni con istituzioni, comunità, clienti e fornitori.

A proposito di clienti e fornitori, spesso le imprese riescono a ottenere buoni ‘voti’ negli indici di sostenibilità perché scaricano su altri il lavoro sporco: un colosso dell’e-commerce, ad esempio, potrebbe risultare ecologico e rispettoso dei suoi impiegati, ma solo perché a movimentarne le merci su vecchi furgoncini a gasolio sono gli autisti sfruttati delle imprese fornitrici. Che fare?

Credo che una scelta lungimirante sia stata quella dell’Unione europea, con una direttiva che impone ai board delle imprese quotate in borsa la responsabilità in sede civile per il rispetto dei diritti umani e ambientali non solo suoi, ma anche di tutta la filiera di fornitori e distributori. Questo responsabilizza le grandi società anche rispetto alle piccole e medie imprese del loro indotto, promuovendo un cambiamento rivoluzionario invece di concentrarsi solo su singole variabili, quali ad esempio le emissioni di CO2.

In effetti perfino l’Economist – che pure preferirebbe concentrarsi proprio sulle emissioni e non è certo amico del ‘big government’ – ammette che "ora una più decisa azione governativa è necessaria". Dal punto di vista pubblico, a che punto siamo in Svizzera?

Essendo fuori dall’Ue, risultiamo sganciati anche dalle nuove direttive. Inoltre, se guardiamo al risultato negativo di votazioni come quella per multinazionali responsabili, vediamo che c’è ancora molta resistenza verso un cambio di mentalità. Voglio però essere ottimista: assistiamo a un’evoluzione culturale che interessa tutto il mondo democratico e che influenzerà inevitabilmente le scelte delle imprese, a prescindere dal ruolo pur fondamentale delle leggi e dei governi. Pensiamo a fenomeni come la ‘Great resignation’, il fatto che sempre più giovani e meno giovani – si pensi ai caregiver, un vero e proprio esercito anche in Ticino –, lascino il loro posto di lavoro o rifiutino un’offerta perché la loro idea – o necessità – di equilibrio tra vita privata e lavoro è radicalmente diversa da quella delle generazioni precedenti: per attrarre questa forza lavoro, spesso anche molto qualificata, così come per risultare appetibili a consumatori e investitori sempre più attenti a certi criteri etici e ambientali, le imprese dovranno comunque cambiare registro.