Che relazioni di vicinato abbiamo in Svizzera e in Ticino? Quanta fiducia c’è? Cos’è successo con la pandemia? Lo rileva il primo grande studio sul tema
Un sorriso, un breve saluto, la porta tenuta aperta, il riguardo nell’utilizzo degli spazi comuni: a tessere la rete del vicinato in Svizzera sono soprattutto la cordialità e i piccoli gesti che fanno da spola tra una certa distanza relazionale. Distanza, però, che si accompagna a un profondo senso di fiducia reciproca. Sono queste le principali caratteristiche che contraddistinguono i rapporti tra vicini alle nostre latitudini. A rilevarlo è il primo studio sul tema a livello nazionale commissionato dal Percento culturale Migros al Gottlieb Duttweiler Institut (Gdi) di Rüschlikon (Canton Zurigo) – intervistate 1’021 persone di età compresa tra i 15 e i 79 anni –, che mette sotto la lente anche le differenze regionali. «I ticinesi hanno più contatti spontanei con i vicini, ad esempio per le scale o per strada, rispetto agli abitanti della Svizzera tedesca – spiega a ‘laRegione’ il professor Jakub Samochowiec, psicologo sociale e ricercatore del Gdi –. Allo stesso tempo, l’aiuto è un po’ meno pronunciato a Sud delle Alpi, ad esempio meno persone innaffiano le piante dei vicini, svuotano la posta o si prendono cura dei loro bambini e animali domestici». Quest’ultimo aspetto, ipotizza Samochowiec, «potrebbe essere ricondotto al fatto che in Ticino la famiglia è più importante e fornisce una maggiore assistenza». Un’altra peculiarità del nostro cantone, condivisa con la Romandia, riguarda la definizione di vicinato che è un po’ più ampia: «Nella Svizzera tedesca spesso termina con le case circostanti, mentre più spesso in quella italiana e francese l’intero quartiere è inteso come vicinato».
Per quanto concerne il quadro generale, dallo studio emerge che la popolazione elvetica non ha un rapporto particolarmente intimo con i vicini: «Uno svizzero su quattro dice di non conoscerli quasi per niente, la maggior parte li conosce abbastanza bene, mentre solo il 10% li conosce molto bene – illustra Samochowiec –. Gli incontri consapevoli si svolgono circa una volta al mese o anche meno frequentemente». Quanto alle categorie, gli anziani e le persone con figli hanno più contatti con i vicini, sia casuali sia concordati. L’atmosfera generale è dunque quella di una convivenza amichevole, ma non di una partecipazione attiva. Dato significativo è che la maggior parte degli interpellati pensa che la situazione vada bene così: «L’80% non vorrebbe affatto avere più contatti», evidenzia il professore.
La ricerca sonda anche le differenze tra campagna e città: «In campagna le persone si conoscono meglio, si fidano di più e sono anche più soddisfatte del proprio quartiere – considera Samochowiec –. In città c’è circa lo stesso numero di persone che ha un rapporto stretto con i vicini e si vede tutti i giorni, ma ce ne sono di più che vivono in modo molto anonimo e non hanno contatti». In generale, però, c’è ovunque un livello alto di fiducia nelle persone che abitano nei dintorni e ci si sente sicuri nel posto in cui si risiede: «La metà dei cittadini è molto soddisfatta del proprio quartiere, e quasi nessuno è veramente insoddisfatto». Questo sentimento può essere ricollegato al fatto che la maggior parte degli intervistati vive nel proprio vicinato attuale da più di dieci anni, con un’interazione prolungata che crea fiducia e stabilità.
L’alto livello di fiducia è giudicato da Samochowiec «molto prezioso, perché rappresenta un potenziale che può essere attivato in qualsiasi momento, se necessario». Lo si è visto durante la pandemia che ha evidenziato quanto sia importante il vicinato. Persone che talvolta si conoscevano a malapena si sono aiutate spontaneamente, senza indicazioni o prescrizioni. «Gli intervistati hanno dichiarato di aver instaurato un rapporto molto più stretto con i vicini e di essersi sostenuti a vicenda». Tuttavia, dopo l’apice della crisi in cui le persone hanno mostrato maggiore responsabilità per il prossimo, «questa stretta relazione è stata nuovamente ridotta e ora, per la maggior parte, è tornata a essere quella di prima». Il bilancio della pandemia secondo lo studio è che in una situazione di emergenza si può fare affidamento sui vicini, ma alla fine non si desidera avere un rapporto fondamentalmente diverso con loro. Intanto la scorsa settimana l’assicuratore Axa ha mostrato un altro lato della medaglia: tra il 2019 e il 2020 le richieste di risarcimento relative alle liti di vicinato sarebbero aumentate di un terzo. La pandemia non sarebbe responsabile di nuovi conflitti, ma le persone sarebbero più sensibili ai fattori di disturbo perché hanno trascorso più tempo a casa.
Tornando alla ricerca del Gdi, data la soddisfazione diffusa, non si attestano desideri o critiche urgenti, spiega Samochowiec: «Gli auspici più frequentemente citati, espressi da circa un quarto degli intervistati, sono luoghi d’incontro più attraenti, un senso di comunità più forte nel quartiere o maggiori opportunità di gioco ad esempio intorno a dei tavoli da ping-pong». Solo pochi hanno l’impressione di non poter essere sé stessi nel proprio vicinato, ma in linea di massima ci si sente liberi. La ricerca rileva dunque che in generale non ci sono carenze infrastrutturali e non c’è necessità di un’animazione sistematica. Esiste semmai il bisogno di possibilità di incontro spensierato e informale.
Dal canto loro, le disuguaglianze sociali, le differenze di status e quelle culturali non sembrano preoccupare particolarmente gli interpellati. Sulla mappa dei valori questi temi risultano per lo più molto marginali, il che secondo i ricercatori potrebbe dipendere dall’andamento dei prezzi degli immobili, che tende a creare dei vicinati più omogenei. Le condizioni socioeconomiche degli abitanti di ciascun quartiere sono infatti simili, per cui viviamo sempre più all’interno di bolle di vicinato. Resta però ancora da vedere – si legge nello studio – se questa tesi verrà avvalorata, in quanto finora in Svizzera non sono stati raccolti dati sulle differenze nei singoli quartieri.