I giudici: cancellarla unicamente a causa delle (discutibili) modalità con cui è entrata in vigore sarebbe eccessivo e non appare quindi opportuno
“Per giurisprudenza le norme cantonali relative alla chiusura dei negozi non possono avere come scopo la protezione dei lavoratori, in quanto tale questione è regolamentata in modo esaustivo nella legge (federale, ndr) sul lavoro”. Ragion per cui, aggiungono i giudici di Mon Repos, il primo capoverso dell’articolo 23 della legge ticinese sugli orari dei negozi - che vincolava l’entrata in vigore della normativa, cosa avvenuta il 1° gennaio 2020, alla sottoscrizione e introduzione nel settore della vendita di un contratto collettivo di lavoro decretato di obbligatorietà generale dal Consiglio di Stato - è incompatibile con la Costituzione federale. E meglio con il suo articolo 49, quello sulla preminenza del diritto federale. Un’incompatibilità tale da giustificare l’annullamento della legge che da poco più di due anni disciplina le aperture dei negozi nel nostro cantone? Per la II Corte di diritto pubblico del Tribunale federale, no. Ergo, la normativa resta in vigore.
È quanto stabilito dal Tf in due sentenze, entrambe datate 22 dicembre 2021, con cui ha accolto altrettanti ricorsi inoltrati nel gennaio dell’anno precedente contro alcuni articoli della legge, sollecitandone la cancellazione. Uno era stato presentato da una società (patrocinata dall’avvocato Ivo Wuthier) che gestisce nel Sopraceneri una stazione di servizio con negozio annesso. L’altro ricorso dal sindacato Unia e da tre cittadini (assistiti dagli avvocati Piero Colombo e Gabriella Mameli). Mon Repos ha così dato ragione ai ricorrenti sull’articolo 23 della legge. Una legge dal parto sofferto, uscita dal Gran Consiglio il 23 marzo del 2015 e approvata in votazione popolare il 28 febbraio dell’anno successivo dopo essere stata impugnata tramite referendum. Perché esplicasse i suoi effetti ci sono però voluti quasi quattro anni, poiché all’epoca, come ricordano i giudici federali, non era ancora entrato in vigore il contratto collettivo di lavoro dichiarato di obbligatorietà generale. Si trattava della clausola inserita nella legge dal Gran Consiglio con il sì, in quella seduta del 2015, all’emendamento proposto dal sindacalista Ocst e allora deputato per il Ppd Gianni Guidicelli. Nonostante il parere giuridico negativo sulla clausola chiesto in precedenza dalla commissione parlamentare della Gestione, l’emendamento in aula era passato. Per un solo voto. Ma l’articolo 23 viene ora bocciato dal Tribunale federale. Il primo capoverso del 23, “il cui scopo - ottenuto facendo dipendere l’entrata in vigore della legge dall’adozione di un contratto collettivo di lavoro nel settore del commercio al dettaglio decretato di obbligatorietà generale - era fare pressione sulle parti sociali perché queste adottassero il Ccl”, è “contrario” al principio della “preminenza del diritto federale", sottolineano i giudici. In altre parole “non è conforme alla Costituzione e non può essere approvato”.
Questa conclusione, rileva il Tf, “non implica tuttavia giocoforza l’annullamento dell’intera legge”. Spiega la seconda Corte di diritto pubblico: “In primo luogo, non va dimenticato che il Tribunale federale si impone un certo riserbo, giustificato dai principi derivanti dal federalismo e dalla proporzionalità, nel quadro di un controllo astratto di un atto normativo cantonale. Ciò a maggior ragione quando è in gioco l’annullamento di un’intera legge cantonale ormai in vigore“. In questo contesto, il Tf “è particolarmente cauto quando un siffatto annullamento è richiesto invocando vizi relativi alla procedura di adozione della legge”. Inoltre, l’articolo 23 capoverso 1 "non ha attualmente più nessuna portata pratica: il suo unico effetto è stato quello di sospendere l’entrata in vigore della legge fino alla conclusione del Ccl e al relativo decreto del Consiglio di Stato sull’obbligatorietà generale”. In tal senso, prosegue Mon Repos, “appare altamente problematico riconoscere uno scopo di protezione dei lavoratori all’intera legge sulla sola base di una norma di questo tipo, che si limita a disciplinare l’entrata in vigore della stessa”. Del resto, osservano ancora i giudici, la normativa ticinese sugli orari di apertura dei negozi “è stata adottata dal parlamento e accolta poi in votazione popolare in seguito a un referendum”. Alla luce di tutto ciò “annullare l’intera legge unicamente a causa delle (discutibili) modalità con le quali essa è entrata in vigore, sarebbe eccessivo e non appare quindi opportuno”. La constatazione dell’incostituzionalità del primo capoverso dell’articolo 23 “è in questo senso sufficiente a sanzionare l’illiceità del meccanismo instaurato tramite la norma” in questione, "segnalando al Gran Consiglio tale problematica”.
Accogliendo le argomentazioni della Sa che gestisce la stazione di servizio con chiosco, il Tribunale federale ha inoltre annullato la disposizione, contenuta nell’articolo 4 della legge, su istituzione e composizione di una “Commissione consultiva", formata da rappresentanti dei datori di lavoro e dei sindacati, per l’applicazione della legge. Poiché anche tale disposizione "è finalizzata alla tutela delle lavoratrici e dei lavoratori, si presenta ancora una violazione della supremazia del diritto federale”, evidenziano i giudici.
Per il resto i due ricorsi sono stati giudicati da Mon Repos infondati. Ma la notizia principale è che la normativa cantonale è salva. Nel complesso regge. E pertanto rimarrà in vigore, ha deciso la II Corte di diritto pubblico del Tribunale federale. «Dopo queste sentenze - commenta soddisfatto il direttore del Dipartimento finanze ed economia Christian Vitta, interpellato dalla ‘Regione’ - la legge cantonale è ancora più solida: abbiamo adesso un quadro giuridico di riferimento chiaro e stabile». Quanto al contratto collettivo di lavoro nel settore e al suo rinnovo, «starà alle parti rinegoziarlo al momento della sua scadenza». L’articolo 23 «non avrà più alcuna influenza».
Dal canto suo Giangiorgio Gargantini, segretario cantonale di Unia, precisa che il suo sindacato «non ha ricorso contro il contratto collettivo, ma contro la legge in quanto il modo in cui è stata adottata è incostituzionale, come ha appurato ora dal Tribunale federale». E per quanto riguarda l’adozione di un Ccl di obbligatorietà generale Gargantini è scettico sulla tenuta dello stesso. «Quel contratto era funzionale a permettere ai negozi di aprire più a lungo ed è risultato fondamentale per l’approvazione della legge sia in Gran Consiglio, sia davanti al popolo», sostiene. «In realtà, secondo noi, non c’è nessuna volontà di creare una comunità contrattuale per migliorare le condizioni dei lavoratori. Vedremo cosa succederà in sede di rinnovo entro la fine di quest’anno», continua Gargantini, precisando che Unia nonostante rappresenti molti lavoratori della vendita, non è partner contrattuale.