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I codici a barre e i calzini (bucati) dei lavoratori

Torna in libreria un lungimirante saggio dell’economista Christian Marazzi su consumi, produzione e linguaggio. Facciamo il punto con lui sul lavoro 2.0

Christian Marazzi (Ti-Press)
30 ottobre 2021
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Un lettore di codice a barre, di quelli con le lucine rosse che vediamo sempre alle casse del supermercato. Un aggeggio apparentemente innocuo, che però l’economista della Supsi Christian Marazzi riteneva già nel 1994 emblematico dell’economia contemporanea: quella in cui a ogni respiro, con le nostre scelte di consumo e di vita, produciamo informazioni che alimentano l’intera catena della produzione globale, sicché ogni ‘bip’ alla cassa detta il ritmo a lavoratori che magari stanno all’altro capo del mondo. Oggi sono piuttosto i ‘clic’ e i ‘tap’ a essere perfino più pervasivi dei bip, ma allora a maggior ragione il saggio di Marazzi su questa realtà a testa in giù – ‘Il posto dei calzini’– si conferma attuale e lungimirante, tanto che l’editore Casagrande ha deciso di ristamparlo. In libreria torna così un raro esempio di testo che prende l’economia dal lato della filosofia invece di nascondersi dietro la finta autorevolezza delle tabelle Excel, per illuminare la centralità del linguaggio e dell’informazione lungo le filiere dei mercati di oggi.

L’imporsi di grandi piattaforme oligopolistiche come Amazon, l’egemonia della distribuzione sulla produzione, il consumatore come produttore di informazioni cruciali per la catena delle merci, l’on demand al posto dei vecchi inventari: le tendenze che osservava a metà anni Novanta rasentano ormai il parossismo. Come siamo arrivati fin qui?

La svolta fu data dal passaggio dall’economia fordista – quella delle fabbriche come luogo di una produzione che si impone sulla domanda – a quella postfordista, nella quale la domanda sottomette a sé l’offerta di beni e servizi secondo la logica del ‘just in time’, della soddisfazione dei bisogni per così dire al minuto. A quel punto la stessa fabbrica ‘esplose’ in enormi catene di valore globalizzate invece di concentrarsi in singoli centri. Con questa rivoluzione, iniziata in Giappone presso Toyota e diffusa in tutto il mondo a partire dagli anni 70 e 80, il linguaggio – inteso in senso ampio come comunicazione di informazioni – diventa strumento di produzione: dice in tempo reale cosa e quanto si deve produrre.

Per il consumatore questo significa ottenere sempre quello che vuole, in tutta comodità e in tempi brevissimi. Cosa c’è di male?

La distinzione tra consumatore e lavoratore si rivela oggi in tutta la sua pretestuosità. Nel momento in cui la comunicazione diventa fattore di produzione – quando cioè non serve neppure un ordine online, basta consultare un social network o partecipare a un videogioco per generare dati cruciali al funzionamento dell’economia – tutta la nostra vita è mercificata e ‘messa al lavoro’. Di fatto produciamo anche quando non ce ne rendiamo conto. Allo stesso tempo, come lavoratori in senso stretto, dobbiamo operare in condizioni ‘on demand’ che si traducono in nuove forme di sfruttamento e di precarizzazione: il lavoro su chiamata, i freelance… Il tutto in un quadro di produzione diffusa, frammentata in una miriade di attori e luoghi diversi, senza cioè quella coesione anche fisica dei lavoratori che permetteva di fare fronte comune contro i soprusi.

Lei parla di “feudalesimo industriale” e “servilizzazione del lavoro produttivo”. Cioè?

In questo processo il capitale è riuscito a polverizzare il fronte del lavoro, superandone le mobilitazioni, la forza sindacale, insomma tutto quel che aveva portato al riconoscimento di diritti che a un certo punto si davano per acquisiti. La frammentazione dei lavoratori si somma a tutte le altre – di razza, di genere, di provenienza geografica – indebolendo in maniera decisiva il singolo impiegato, che come tale si trova premiato solo se dimostra fedeltà totale e acritica al suo datore di lavoro. Non è un caso che il modello sia nato in Asia e comprenda una forte componente per così dire ‘confuciana’, tale da imporre un contesto in cui l’unico riflesso ‘giusto’ di fronte al padrone sarebbe chinare la testa.

Questo modello oggi pare trionfare soprattutto in Paesi dispotici come la Cina.

La Cina pare confermare i nostri peggiori timori: il capitalismo vincente si dimostra quello autoritario. Ma è una tendenza diffusa anche altrove, al punto di svuotare di senso e funzione anche le strutture delle democrazie occidentali.

È quella che definisce la “democrazia senza diritti”?

È in effetti l’involuzione – che vediamo tra l’altro negli Stati Uniti, in Italia, ma anche in Svizzera – di un sistema egemonico che ha perso la pazienza verso i tempi lunghi della democrazia, del confronto, del rispetto reciproco. Il regno del ‘just in time’ premia la malintesa risolutezza del decisionismo e dell’autoritarismo, mandando in crisi i partiti e gli altri corpi intermedi della rappresentanza democratica.

Credevamo che la globalizzazione avrebbe almeno permesso di superare certe divisioni nazionalistiche e razziste. ‘Il mondo è piatto’ recitava piuttosto trionfalmente nel 2005 il titolo di un vendutissimo libro di Thomas Friedman. Si sbagliava?

Se da una parte l’economia di oggi è davvero globale, è anche vero che la reazione spontanea è stata quella di una chiusura entro vecchie frontiere, entro confini anche mentali che creano, per dirla col sociologo Aldo Bonomi, “comunità rancorose”. Mentre la vita e il lavoro paiono perdere qualsiasi unità di tempo e di spazio, il discorso politico e sociale è dirottato dalla divisione e dallo scontro col diverso.

Dopo trent’anni, vede segni di risveglio?

Certamente uno viene dai nuovi movimenti giovanili. Le manifestazioni in difesa del clima, ad esempio, dimostrano un modo a mio avviso virtuoso di coniugare l’impegno locale con un fronte globale. Inoltre la pandemia ha fatto vedere i limiti del sistema e dell’individualismo che lo alimenta, riportando in primo piano l’importanza di costruire ‘comunità della cura’, nelle quali l’elemento solidale riconquisti il suo ruolo. Anche certe proteste di piazza segnalano l’esplosione del malcontento.

Peccato che quel malcontento sia spesso dirottato da fascisti e gente con la stagnola in testa.

Sicuramente molte proteste risultano spurie rispetto alla necessità di sottrarsi a un sistema così oppressivo e omologante. Non è neppure facile trovare forme di opposizione costruttiva dopo la crisi delle organizzazioni che tradizionalmente la strutturavano. Una buona regola di base è sempre quella di ripartire dal lavoro, ma anche questo è arduo. Tra i segnali che comunque fanno riflettere c’è quello dei 4 e rotti milioni di lavoratori Usa che si sono licenziati di recente e non intendono tornare al lavoro alle stesse condizioni pre-pandemiche. Segno che a tutto c’è un limite.

A proposito di lavoro, la solidarietà di classe esiste ancora? Oppure le classi sociali sono scomparse?

Non sono scomparse, ma hanno perso il loro linguaggio comune, dunque la loro identità, le loro bandiere. Il processo di ‘estrazione’ del valore dal lavoro resta al suo posto, e con esso le dinamiche di subordinazione dei lavoratori, ma questi si sfilacciano in forme diverse e relativamente nuove. Come il ‘cognitariato’, ovvero tutti quei lavoratori della conoscenza e della produzione immateriale, confinati anche loro in un limbo di precariato.

La ‘svolta linguistica’ che innerva l’economia tocca anche chi la subisce. A un certo punto lei scrive che “la lotta è dentro il linguaggio”. In che senso?

Come detto, il linguaggio in tutte le sue forme è oggi alla base della produzione: non è più qualcosa di distinto e limitato alle fasi di pubblicità e vendita, serve a dire il cosa e il come alla produzione di valore. Quello stesso linguaggio – dagli 0 e 1 dei computer alle varie forme di comunicazione umana – dev’essere giocoforza universale e omologante. Ma c’è anche la possibilità di riappropriarsene, di sottrarlo al discorso prevalente che trova anche nei media dei potenti megafoni.

Sempre rimanendo al linguaggio, ha intitolato il suo saggio ‘Il posto dei calzini’. Bislacco, no?

Il titolo viene dalla volontà di sottolineare proprio quel tipo di divisioni che il linguaggio può affrontare oppure nascondere. Faccio l’esempio scherzoso dei calzini, che l’uomo considera al loro posto quando per la donna non lo sono affatto, col risultato che poi quest’ultima li rimette dove reputa giusto. Questo piccolo malinteso casalingo funge da epitome di quei conflitti di genere che poi si replicano e si diffondono lungo tutto il tessuto socioeconomico. Rimettere a posto i calzini, il gesto della donna nel quale si condensano millenni di divisione e prevaricazione di genere, simboleggia meccanismi di subordinazione che poi si estendono anche in altri ambiti come quelli etnici e professionali. Il linguaggio deve servire a riflettere su queste differenze invece di nasconderle, come purtroppo fa anche il ‘vocabolario’ dell’economia, con le sue pretese di omogeneità quantitativa.

Torniamo al lavoro. Se il mondo postfordista presenta una frammentazione tale da rendere difficili le rivendicazioni classiche, è pur vero che è anacronistico voler tornare alle catene di montaggio, alle Ford modello T e alle auto “di qualsiasi colore, purché siano nere”. Intanto si contano già più fattorini in bicicletta che tute blu. Come può lo Stato sociale attutire la caduta di molti dal trapezio dell’impiego?

A me pare più urgente che mai disaccoppiare lavoro e cittadinanza. Di certo il welfare non può tornare a essere quello di Beveridge (economista e sociologo britannico noto come ‘padre’ dello Stato sociale inglese a partire dagli anni 40 del Novecento, ndr). Occorre pensare a nuove forme di assistenza e protezione che garantiscano la dignità di tutti, anche di chi si trova respinto dal mercato del lavoro. Occorre sperimentare anche soluzioni che oggi appaiono radicali, come il reddito minimo garantito. L’importante è non ripetere l’errore che perfino la sinistra fece fin dai tempi di Bill Clinton e Tony Blair: quello del cosiddetto ‘welfare to work’, l’idea che il supporto sociale debba essere subordinato al reinserimento nel mondo del lavoro anche quando questo è a tutti gli effetti impossibile o crea solo working poor. Quel modello sperava di ridurre la spesa pubblica, invece ha creato una pletora di ‘operatori del reinserimento’ senza ottenere alcun risultato di rilievo. Dobbiamo osare, essere un po’ più pirati, nel senso etimologico di colui che sfida, tenta, esplora.

LA MANIFESTAZIONE

In piazza per un salario dignitoso

Bellinzona, piazza Stazione, ore 13. Queste le coordinate della manifestazione che oggi – sotto le insegne dell’Unione sindacale svizzera – sfilerà per le vie della città rivendicando aumenti salariali in tutti i settori economici “per una miglior ridistribuzione delle ricchezze e un aumento del potere d’acquisto”, ma anche più sicurezza sul lavoro, un sì all’iniziativa ‘per cure infermieristiche forti’ e un no all’aumento dell’età di pensionamento delle donne.

E se la manifestazione si svolgerà in parallelo in altre quattro località svizzere (Berna, Zurigo, Olten, Ginevra), in Ticino il tema principale sarà proprio quello dei salari, inferiori del 20% alla media nazionale, con “un tasso di povertà relativa al 12%” e “quasi un abitante su cinque disoccupato o sottoccupato”, come denuncia il comunicato degli organizzatori. I quali ricordano anche che “negli ultimi 18 mesi la Confederazione ha investito miliardi a sostegno dell’economia: sostegno necessario e reso possibile dalle enormi risorse economiche del Paese, che devono ora essere condivise anche con noi lavoratori e lavoratrici che questa ricchezza l’abbiamo creata.
Invece, nella realtà, succede il contrario con inaccettabili tentativi da parte del padronato, in diversi settori, di peggiorare le condizioni di lavoro”.

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