Il caso Zylla in un libro dell’avvocato ed ex magistrato Luciano Giudici, che sostenne l’accusa al dibattimento tenutosi nel 1973 a Locarno
“Dopo tre settimane di udienze estenuanti e drammatiche, siete chiamati a giudicare i responsabili dell’assassinio più efferato commesso da più persone nel nostro Cantone in questi decenni, se non in questo secolo”. Attaccò così l’allora trentaquattrenne procuratore pubblico sopracenerino Luciano Giudici la requisitoria, rivolgendosi alla Corte. Era giunto il suo turno, il turno dell’Accusa, al processo Zylla, apertosi il 5 novembre e conclusosi il 4 dicembre 1973. Si celebrò a Locarno, la città dove Giudici è nato e dove ancora oggi si trova il suo studio legale. La requisitoria è riportata integralmente nel recente libro ‘Il processo Zylla’ (Armando Dadò Editore), di cui è autore l’avvocato ed ex magistrato, già procuratore straordinario nel 2000, designato dal Consiglio di Stato, per l’affaire ‘Ticinogate’, sfociato nella condanna dell’allora presidente del Tribunale penale cantonale per corruzione passiva. Luciano Giudici presenterà il volume domani, venerdì, alla Biblioteca cantonale di Locarno, con inizio alle 18.15.
Un attempato dissipatore di capitali germanico, la ‘diabolica coppia’ che se ne serviva per motivi economici e ne avrebbe poi ordinato l’uccisione, un omicida psicopatico con precedenti penali, e l’intermediario ‘viveur’. Gli elementi c’erano tutti, per fare del ‘caso Zylla’ il ‘padre’ di tutte le vicende giudiziarie ticinesi. Un caso che ha inizio il 19 settembre del 1971, quando due turisti sentono un nauseabondo odore dolciastro mentre passeggiano sulle pendici del Monte Brè: sembra provenire da un sacco di juta abbandonato sul ciglio della strada. I due se ne vanno ma avvisano la polizia. Quel che c’è dentro lo scopriranno due agenti: il cadavere di un uomo in avanzato stato di decomposizione. Ha una calza da donna strettamente attorcigliata al collo ed è solo grazie a un altro indumento, le mutande, che sarà possibile stabilirne l’identità. Si tratta di Egon Zylla, cittadino germanico originario di Amburgo e residente da alcuni anni al Monte Verità, già in cura per etilismo e confrontato a seri problemi psichiatrici. Di lui si saprà che era arrivato in Ticino con 4 milioni di marchi, tra capitali e immobili, in gran parte già dilapidati nelle notti brave che impazzavano in quegli anni ad Ascona.
Le indagini sono pressanti e nel giro di un paio di settimane danno i loro frutti. Finiscono in manette Wilhelm Geuer e Gisela Kemperdick, germanici anche loro e come Zylla frequentatori del belmondo asconese. Dell’uomo si dicono amici e consulenti, ma secondo gli inquirenti lo hanno solo spremuto a dovere e poi fatto ammazzare per paura di essere scoperti dai suoi parenti. Vengono arrestati anche l’autore materiale dell’omicidio, Wolfgang Manser, pregiudicato per aver ucciso, senza movente, un omosessuale a Basilea anni prima; e Romolo Stoppini, l’intermediario, residente a Minusio. Mentre Manser e Stoppini ammettono subito ruoli e responsabilità, Kemperdick e Geuer negano tutto e continueranno a farlo come “inespugnabili fortezze teutoniche”, secondo la felice immagine che ne diede anni dopo il giornalista Teresio Valsesia.
Il ‘processo del secolo’ inizia due anni dopo a Locarno, il 5 novembre del ’73. Pubblico e addetti ai lavori si assiepano nella sala della Sopracenerina, preferita all’aula di tribunale per ragioni di spazio. Ai banchi dell’accusa c’è il procuratore Luciano Giudici; a quelli della difesa un agguerrito collegio composto dagli avvocati Franco Ferrari, Pino Bernasconi, Gabriello Patocchi (con una giovane praticante di nome Carla Del Ponte) e Sergio Salvioni a patrocinare le figlie di Zylla. La verità giudiziaria emerge il 4 dicembre con una sentenza di colpevolezza emessa dalla Corte presieduta dal giudice Gastone Luvini. Geuer, definito “l’unica mente del delitto”, va alla reclusione perpetua; gli altri vengono tutti condannati a 18 anni (Manser, che beneficia della scemata responsabilità, fuggirà dal carcere di Regensdorf nell’81 e verrà rintracciato, ormai 76enne, in Messico nel 2004).
Negli anni successivi emergeranno, secondo i difensori della ‘diabolica coppia’, fatti nuovi tali da giustificare una revisione del processo. Fra essi, anche una clamorosa ritrattazione di Manser, pronunciata in carcere confidandosi con una suora e un cappellano, secondo cui non sarebbe stato lui l’omicida, ma un suo amico. Le istanze di revisione vengono però rigettate. La prima nell’82 dalla Corte di cassazione allora presieduta dalla giudice Clementina Sganzini; la seconda, dopo un’interminabile battaglia giudiziaria, dal Tribunale federale il 25 marzo 2000, 29 anni dopo i fatti.
Per la giustizia, il 20 agosto 1971 i quattro imputati attirarono Zylla in una casa di Gordemo. Appena varcato l’uscio, l’uomo venne strangolato da Manser. Secondo i ricordi dell’omicida, quello emesso della vittima prima di soccombere fu “un urlo soffocato”. A Stoppini, che osservava la scena, parve invece “un gemito, come di una bambola”.
«Era una domenica e mi trovavo a Bellinzona, alla Caserma, ospite, con rappresentanti di altre autorità, della festa organizzata per i ventenni di tutto il Ticino. A un certo punto fui avvertito dal commissario della Cantonale Giacomo Brumana, capoposto di Pubblica sicurezza, che avevano trovato un sacco di juta con dentro il cadavere di un uomo. Mi precipitai a Locarno, dove nel frattempo la polizia aveva identificato quel corpo senza vita e questo perché il nome Zylla era scritto sulla biancheria intima. Come venni a sapere dopo, la vittima fu in precedenza ricoverata per cure psichiatriche e l’istituto stampava le generalità dei pazienti sui loro capi di biancheria intima per permetterne il riconoscimento nel caso in cui, scappati dall’istituto, non fossero stati in grado di fornire, incontrando terze persone, nome e cognome». È trascorso mezzo secolo, ma quel 19 settembre del 1971 lui, Luciano Giudici, 82 anni, avvocato, all’epoca procuratore pubblico sopracenerino, che due anni più tardi sosterrà l’accusa al processo per l’assassinio di Egon Zylla, ce l’ha scolpito nella memoria.
Il caso destò un interesse mediatico e di riflesso nella pubblica opinione senza precedenti in Ticino e fuori del Ticino. Come se lo spiega, avvocato Giudici?
Non per niente il giudice Gastone Luvini, presidente della Corte delle Assise criminali, sentite anche le parti, decise per questioni di spazio di celebrarlo non nell’aula penale del Pretorio di Locarno, ma nella ben più ampia sala della Sopracenerina, sempre a Locarno. Soprattutto per la prevedibile massiccia presenza di giornalisti. Parteciparono una cinquantina di cronisti, se non ricordo male, di cui la maggior parte proveniente dalla Germania. Tant’è che si dovette allestire una sorta di sala stampa, con telefoni e telex. Il grande interesse per questo processo era da ricondurre comunque a più fattori.
Per esempio?
Le modalità del delitto, commesso con efferatezza e premeditazione. Zylla venne strangolato e il cadavere infilato in un sacco di juta, gettato in un dirupo dove fu rinvenuto un mese dopo l’assassinio. Un fatto prima di allora mai accaduto in Ticino e ciò turbò i cittadini e le cittadine di questo cantone. Ad alimentare il clamore mediatico contribuirono anche le testate giornalistiche germaniche, per evidenti ragioni: la vittima era di Amburgo e i mandanti dell’assassinio, Wilhelm Geuer e Gisela Kemperdick, che non confessarono mai, erano tedeschi. Poi c’era, penso, il fattore Ascona, in quegli anni frequentata in particolare da artisti e intellettuali germanici: era un’élite culturale, un mondo a parte, rispetto al resto del cantone, vissuto anche da Zylla, Geuer e Kemperdick. Un mondo inizialmente scettico sulla colpevolezza di Geuer e Kemperdick. Infine, ma non da ultimo, a suscitare interesse era il carattere indiziario di questo processo. Anche se dal mio punto di vista, quello dell’accusa, le prove c’erano tutte e la validità del lavoro svolto dalla Polizia cantonale, dal compianto giudice istruttore Fausto Celio e dal sottoscritto venne poi confermata dalla sentenza di condanna per tutti gli imputati. Come disse il presidente della Corte Luvini, gli indizi vanno non solo considerati singolarmente, ma anche e soprattutto nel loro insieme.
Il processo durò addirittura un mese.
Fu indubbiamente lungo e questo anche perché molti furono i testimoni convocati, per essere interrogati e controinterrogati. Decine e decine. In diversi arrivarono dalla Germania, dove avevano già deposto davanti alla polizia tedesca. Un’importante sfilata di testi.
Al processo cosa la colpì in particolare degli imputati?
L’impassibilità di Wolfgang Manser, l’autore materiale del delitto, e di Geuer, uno che aveva fatto la Seconda guerra mondiale nelle file dell’esercito tedesco e che si era fatto tre anni di prigione in Russia, uno con una resistenza fisica e psicologica notevoli. Quando venne arrestato, Manser confessò subito. D’altronde nella sua abitazione a Gordola, a Gordemo per la precisione, sequestrammo calze di nylon simili a quelle usate nel delitto e dei sacchi di juta. Manser, sempre su incarico di Geuer e Kemperdick, avrebbe dovuto uccidere Zylla una settimana prima e questo in Germania, dove la potenziale vittima si era recata. Come però raccontò lui stesso agli inquirenti, Manser non se la sentì di agire in quanto fuori dal suo ambiente. Andò in Germania, incontrò Zyllla, passeggiarono in un bosco e rientrò in Ticino. Confessò, anche se non subito, pure Romolo Stoppini, che chiamò in causa Geuer e Kemperdick come mandanti. I quali invece non confessarono mai. Di Gisela Kemperdick mi colpirono i suoi tentativi di convincimento, anche quando c’erano testimonianze ed elementi fattuali che la contraddicevano in maniera evidente. Ricordo poi che poco prima che la Corte si ritirasse in Camera di consiglio per deliberare, il giudice Luvini le chiese se non fosse stata succube di qualcuno e trascinata di conseguenza nella situazione di cui era chiamata ora a rispondere davanti ai giudici. Esprimendosi in tedesco, rispose: “In nessuna maniera, semmai ero io la persona dominante”.
Quello sul caso Zylla non fu il suo unico grosso processo come magistrato inquirente…
Due anni prima mi ero occupato della sciagura sul lavoro a Robiei. I processi che mi hanno impegnato parecchio sono tre: il caso di Robiei, il caso Zylla e quello legato al cosiddetto Ticinogate, con il processo, nel giugno 2001, a carico dell’allora presidente del Tribunale penale cantonale, coimputato. Quest’ultimo procedimento penale, per il quale venni nominato dal Consiglio di Stato procuratore straordinario, mi ha segnato molto sul piano umano. In tutti questi casi ho sempre proceduto comunque con senso delle istituzioni e con serenità d’animo, convinto con fermezza delle conclusioni a cui approdavo.