L’affetto e per il giornalista e scrittore prematuramente scomparso in Valgrande, nel ricordo degli editori che ne hanno pubblicato le opere
Testimone lucido ed empatico della ferocia del mondo. Vissuto da quei margini cui sentiva di appartenere, da protagonista ma senza traccia alcuna di protagonismo, che era anzi la tinta più estranea alla sua tavolozza caratteriale.
Dice bene il titolo del commento oggi in bianco sulla nostra prima pagina: abbiamo perso una colonna. A un anno dalla sua scomparsa, quel bianco senza parole che lo possano riempire rappresenta in modo perfetto il vuoto lasciato da Erminio Ferrari: in tutti noi al giornale, colleghi e amici, compagni di quei quotidiani viaggi frettolosi che Erminio sapeva sospendere con la leggerezza di un sorriso; e anche nei lettori, che grazie ai suoi pensieri potevano spesso decifrare i loro, o se non era il caso almeno confrontarli, ma sempre su basi argomentative da cui emergeva una straordinaria umanità.
La stessa umanità che era la cifra principale delle sue innumerevoli pubblicazioni letterarie, in cui al rigore della cronaca sapeva abbinare la prosa del romanziere: concessione stilistica necessaria, ma mai ostentata, e talvolta sofferta, per dare respiro ai fatti e farne racconto. E se è vero che siamo le tracce che lasciamo, quelle disseminate dall’Erminio scrittore sono la testimonianza più solida e duratura di un talento costruito su curiosità, piacere della ricerca e bisogno di raccontare le persone e il loro territorio. “Contrabbandieri” – le storie di “uomini e bricolle tra Ossola, Ticino e Vallese” – pubblicato per Tararà Edizioni a Verbania, o “Cielo di stelle”, sulla tragedia di Robiei del febbraio ’66 in cui in un cunicolo d’adduzione dell’impianto idroelettrico morirono 15 operai italiani e due pompieri di Locarno (edito da Casagrande), sono solo due esempi, ma illuminanti, di un ventaglio produttivo ampio e variegato il cui comune denominatore è l’attenzione verso quegli “ultimi” che Erminio considerava i suoi primi maestri.
Testimoni delle fatiche letterarie di Erminio sono stati i suoi editori. A partire dalla prima, Pieranna Margaroli, co-fondatrice della Tararà Edizioni di Verbania, per la quale Ferrari ha pubblicato saggi, romanzi e racconti e della cui casa editrice è stato socio per 12 anni, fino alla sua prematura scomparsa. «Quello con Erminio non era un rapporto professionale in senso stretto perché era intrecciato con un’amicizia profonda che si è sviluppata dalla fine degli anni ’70 per i successivi 40 anni – ricorda Margaroli –. Lo avevamo conosciuto come giovane studente quando aveva cominciato a frequentare la nostra libreria a Verbania. Poi, quando come “costola” della libreria è nata la Tararà Edizioni, è stato abbastanza naturale che cominciasse a pubblicare con noi in chiave diciamo territoriale e tematica, orientandosi però anche su Casagrande per i temi legati alla Svizzera e al suo mercato di riferimento».
Autore, curatore e ricercatore
Una delle primissime pubblicazioni per Tararà era stata “In Valgranda”: «L’aveva già scritto e ce l’aveva fatto trovare pronto. Unitamente a Teresio Valsesia, uno dei suoi veri maestri per la realtà locale era stato Nino Chiovini, lo storico della Resistenza e della cultura materiale montana morto anch’egli giovane e del quale abbiamo ripubblicato diverse opere. Avere due grandi come lo stesso Chiovini – bravo a scrivere ma più ricercatore storico – ed Erminio, decisamente più geniale nella scrittura, è stata una delle nostre fortune. Quanto a Erminio, con lui non c’era un programma, ci si confrontava e nascevano le pubblicazioni, come “Contrabbandieri”, venuto alla luce da uno studio importante anche perché in fondo confacente a tutto l’arco alpino. Un aneddoto simpatico è che durante la sua ricerca incontrò un Margaroli, detto “il Negus”, che era stato a capo di una ventina o più spalloni. Da quell’incontro con un personaggio della nostra stessa stirpe nacquero naturalmente motivi di divertimento. Una rara capacità che aveva Erminio era quella di tessere dei rapporti senza bisogno di parlare troppo, basandosi quasi su sottintesi».
Dice molto del legame che univa Erminio e la casa editrice verbanese la decisione, presa nel 2008, di diventarne socio. «Per noi oltre che scrivere faceva ricerca, e ha curato libri di cui non era l’autore. L’ultima cosa che ha fatto prima del “Valzer per un amico” era stata la cura della traduzione dall’inglese di “Lorenzo Grassi in ’Merica”, sull’emigrante falmentino che in Canada è diventato un tracciatore di sentieri. Ricordo anche la collaborazione con mia figlia, che aveva tradotto l’introduzione di “Ritorno in Val Formazza” di Arthur Cust». Anche con la famiglia il rapporto è sempre stato molto intenso, sottolinea Margaroli, tant’è vero che adesso alla Tararà sono subentrati i figli, in modo particolare Marta: «Ha voluto assumersi il compito di dare continuità alla vita di suo papà, e non solo in termini per così dire editoriali. Marta si è subito rapportata con noi e stiamo ora lavorando sia sulle ristampe di Erminio, sia su alcuni racconti inediti per i quali con lui stavamo cercando un “filo rosso” che ne sostenesse la pubblicazione. L’ultima volta che ne avevamo parlato con lui è stata una settimana prima che morisse».
Pieranna Margaroli sa che Erminio Ferrari era stato in contatto anche con case editrici importanti, fra le quali Einaudi. «Me ne aveva parlato. Credo che se poi questi contatti non si sono concretizzati sia probabilmente stato perché non era il momento giusto, anche dal punto di vista storico; o forse giusto non era, semplicemente, l’editor. La mia impressione è che, specialmente negli ultimi anni, Erminio fosse addirittura troppo avanti, come credo dimostri “Scomparso”, uscito nel 2013, un lavoro molto difficile, sul quale abbiamo dibattuto molto».
Dibattito che era frequentissimo anche da Casagrande, in particolare con Matteo Terzaghi, che con Erminio Ferrari ha lavorato a più opere, partendo da “Passavano di là”, uscito nel 2002 e poi andato in ristampa grazie al buon successo ottenuto. Dopo “Fransè” (2005), nel 2017 è arrivato “Cielo di stelle”, un certosino, drammatico e appassionante lavoro di scavo nella memoria della più grande tragedia sul lavoro mai avvenuta nella Svizzera italiana.
«Con Erminio c’erano scambi continui, anche sul piano personale – dice Terzaghi –. Si parlava di libri e di letture. Un modo tipicamente suo era non limitarsi ad accennare a un autore o a un’opera, ma parlarne... dopo essersi portato avanti col lavoro. Le sue non erano mai solo chiacchiere».
Esattamente questo è successo con la sua traduzione di “La luce rubata” di Hubert Mingarelli, «un autore che gli piaceva molto e che gli era vicino anche per i temi». “La luce rubata” è ambientato durante la Seconda guerra mondiale nel cimitero ebraico di Varsavia, dove l’undicenne Elia vive nascosto e trova quale unico confidente Josef, che lì giace sepolto. Finché un giorno conosce l’adolescente Gad, uno “szmugler”, un contrabbandiere, che col sacco in spalla entra ed esce dal ghetto sfidando l’accerchiamento dei soldati tedeschi.
«Il piccolo Elia, che morirà fucilato, è l’innocenza, prima vittima di quel mondo inferocito di cui Erminio si è occupato anche nel suo lavoro di giornalista, e mi riferisco ad esempio alla tragedia dei migranti. Sono i temi di Erminio, che nella sua opera letteraria tornano parlando di Resistenza, ebrei in fuga o passatori. Credo che questa permeabilità, questa continuità fra un campo e l’altro della sua attività gli abbiano consentito di non cadere mai, come giornalista, nelle formule troppo facili utilizzate da chi deve raccontare una storia ma ha ormai perso di vista gli esseri umani che ne sono i protagonisti».
E poi c’era la montagna, restituita con passione in molti lavori per diverse case editrici. Uno in particolare lo ricorda Massimo Gabuzzi, responsabile delle pubblicazioni di Salvioni Edizioni: «Per noi era una garanzia perché sapeva esattamente quello che scriveva. Per il libro sulle montagne del Bellinzonese, di cui aveva curato i testi su foto di Marco Volken, erano nate discussioni appassionanti sul tema dei rifugi. In uno minuscolo, nella zona del Monte Bianco, era stato guardiano tempo prima. Un’esperienza praticamente in solitaria che, diceva, era stata perfetta per lui».