I foyer Calprino e Verbanella della Fondazione Amilcare compiono 40anni
Succede. Sì, succede di non poter vivere in famiglia, per vari motivi. Per molti di questi ragazzi e ragazze ci sono i Centri educativi per minorenni (Cem), come quelli gestiti dalla Fondazione Amilcare. Accoglienza, ascolto e relazioni stabili di fiducia sono le parole d’ordine della fondazione che offre, oltre ai tre foyer, il percorso in appartamento con due équipe regionali Adoc, la presa a carico diurna presso lo Spazio Ado, come pure AdoMani: un servizio che offre attività che aiutano ad avvicinare i ragazzi, bloccati da un punto di vista formativo, al mondo del lavoro. Abbiamo chiesto a Gian Paolo Conelli, direttore, e Patrizia Quirici, vicedirettrice, di parlarci di questa realtà e delle sfide che devono affrontare gli educatori: una professione che sollecita molto la sfera emotiva.
Facciamo un passo indietro, com’è nata la Fondazione Amilcare?
Conelli: L’origine è legata a due personaggi importanti, il pediatra Amilcare Tonella, da cui poi ha preso il nome, che già negli anni ottanta era molto attivo a livello sia ticinese sia svizzero nella promozione dei diritti dei minori. E Franca Bernasconi–Armati che è stata direttrice per vent’anni seguita poi da Raffaele Mattei. Fino al 2018; entrambi avanguardisti nel nostro settore.
Nell’81 erano già stati creati i foyer, Calprino e Verbanella, che ora compiono 40 anni. Erano le prime realtà ticinesi, insieme ad altri piccoli ‘centri’ familiari, di accoglienza residenziale di ragazzi che avevano bisogno di strutture educative. Nell’87 nasce un terzo foyer, il Vignola. Ora ci occupiamo di 60 adolescenti tra i 15 e i 20 anni.
Col tempo sono nate altre offerte.
Quirici: Le modalità educative e l’organizzazione dei foyer si sono negli anni adeguate ai bisogni dei ragazzi, delle famiglie e del territorio.
C: Ci si era accorti che alcuni ragazzi facevano fatica a vivere e a condividere il proprio cammino di crescita insieme ad altri giovani altrettanto sofferenti. Da lì, nel 2006, l’idea di proporre a chi ha almeno 16 anni il percorso in appartamento. Vivono da soli, ma sempre con il supporto degli educatori che regolarmente gli fanno visita.
Spesso i ragazzi che vengono collocati da voi hanno vissuto diverse interruzioni di percorsi o di relazioni significative.
Q: Uno degli obiettivi che ci poniamo è quello della continuità relazionale tra educatori e ragazzi. Spesso hanno perso fiducia nei confronti degli adulti. Noi cerchiamo di proporci come un’opportunità per vivere un’esperienza diversa e quindi ci impegniamo a creare una relazione di fiducia che ci permetta di accompagnare i ragazzi durante il loro percorso e di esserci anche quando è difficile e rischioso.
Ognuno di essi ha vissuto e vive una situazione diversa.
Q: Il nostro modo di lavorare implica il progetto individualizzato, che viene costruito partendo dal giovane sulla base delle sue risorse, desideri e anche sogni.
C: In quarant’anni il diritto all’autodeterminazione dei ragazzi è sicuramente evoluto molto, i diritti dei minori sono sempre più marcati e sottolineati. Nei percorsi oggi devono esserci dei professionisti che definiscono gli obiettivi educativi insieme al ragazzo e, se possibile, alla sua famiglia. Non è l’adulto che ‘formatta’ il giovane secondo quello che ci si aspetta da lui.
Quale deve essere dunque la postura dei ‘grandi’?
C: La voce dell’adulto deve trovare un suo equilibrio nel consigliare, nell’accompagnare sempre con un’attitudine accogliente e non giudicante nei confronti del ragazzo e della sua famiglia. È quello che permette poi al giovane di far appello all’équipe educativa nei momenti più bui.
La Fondazione Amilcare ha messo nei suoi principi operativi questa idea di protezione fondata sulla relazione, questo permette di seguire i giovani sia in foyer che in appartamento, e considerarlo come un percorso di protezione.
Come si fa a mantenere un equilibro fra apertura e l’essere responsabili di quelli che sono spesso dei minorenni?
C: È una questione di postura relazionale. L’adulto può spiegare che una determinata azione è pericolosa, illegale o altro, senza giudicare e /o squalificare l’altro al contempo rimandando che quel comportamento non va bene e il perché. L’educatore lavora sui comportamenti del ragazzo sempre accogliendo e riconoscendo la persona che ha davanti.
Nel caso di comportamenti pericolosi o illegali?
C: L’educatore li riferisce al suo responsabile che ne parla con la direzione. In parallelo avviene una comunicazione con la rete degli altri professionisti o autorità che seguono il ragazzo, come pure con i genitori. Noi condividiamo regolarmente, in collaborazione coi giovani, l’andamento del collocamento a questa rete di persone nell’obiettivo di responsabilizzare il ragazzo di fronte alle sue azioni.
Il ragazzo però si potrebbe arrabbiare perché l’adulto ha raccontato l’accaduto.
Q: Quando arrivano dai noi, spieghiamo quali sono le regole che riguardano la comunicazione: chiarezza e trasparenza. Così se si verificano certe situazioni il ragazzo conosce già la nostra postura, sa che non copriamo trasgressioni o potenziali reati, ma che lo accompagniamo nell’assumersi le proprie responsabilità.
Si è parlato di genitori, che ruolo hanno?
Q: Cerchiamo sempre di integrarli nel percorso di collocamento dei figli. Vogliamo far emergere le risorse che hanno le famiglie e i ragazzi, perché ce ne sono. Stimolando il loro potenziale i giovani riescono ad avere dei percorsi positivi. Ce la mettono tutta, come anche i nostri educatori. C’è un grossissimo lavoro nel credere nell’altro, nel dare fiducia, per far sì che un futuro migliore possa esserci.
Come vivono i ragazzi questo modo di porsi?
Q: Quello che raccontano cammin facendo o quando sono usciti, è che una postura di ascolto è stata per loro importante. È l’aver fatto esperienze, anche accompagnati e sostenuti dagli educatori, che gli hanno permesso di riacquistare fiducia in loro stessi. Il risultato è che poi si sperimentano di più e con meno timori nell’affrontare le sfide della vita. Questo avviene perché il ragazzo riesce a mettersi in gioco e, nel nostro caso, gli educatori riescono a porsi come figure significative capaci di ‘iniettare’ questa fiducia che serve per affrontare la vita e raggiungere gli obiettivi che il ragazzo si pone.
C: Saper costruire una relazione di fiducia è qualcosa di non scontato all’inizio con ragazzi che arrivano molto sfiduciati nei confronti degli adulti. Dunque diventa importante dare ascolto e riconoscere anche lo statuto di vittima di un ragazzo. Tutto ciò costruendo giorno dopo giorno una reciprocità in cui io ti ascolto e tu mi ascolti, dando spazio alle emozioni, vivendo i conflitti in maniera meno catastrofica rispetto a situazioni passate che hanno portato alla rottura delle relazioni. Per i ragazzi è importante vedere che nonostante tutto l’educatore resta, continua a essere presente.
L’educatore è una professione che richiede molto a livello emotivo. Si riesce a lavorare per tanti anni? A dare continuità?
Q: Si può riuscire, è un lavoro stimolante, creativo, coinvolgente, al contempo complesso e che richiede molta motivazione. Ci vogliono anche delle condizioni di lavoro che ti permettano di restare e continuare a crederci. La Fondazione Amilcare cerca di mettere a disposizione dei propri dipendenti condizioni di lavoro buone: ogni équipe ha una supervisione regolare, ci sono giornate di formazione interna, eventuali professionisti da attivare al bisogno, vengono promossi momenti di scambio e condivisione. È pure vero che, a livello di società, questa professione dovrebbe essere un po’ più conosciuta e riconosciuta. Come accaduto in altri ambiti durante il lockdown i nostri educatori non si sono fermati e hanno lavorato con impegno gestendo grossissime incognite. Grazie.
C’è un’offerta sufficiente di strutture sul territorio?
C: In Ticino ci sono 336 posti nei centri educativi. Noi siamo specializzati nell’adolescenza e i posti sono sempre pieni.
Bisogna considerare che sempre di più la difficoltà di affrontare la vita di diversi ragazzi si manifesta attraverso fragilità anche di ordine psicologico e che il Cem non può rispondere a tutte le sollecitazioni.
La riflessione parte dalla prima infanzia. Ci vuole una società che sviluppi maggiormente le possibilità di relazione e di ascolto per i singoli ragazzi. Questo non solo in strutture per attività giovanili, ma anche nelle piccole cose: dalla scuola alle attività comunitarie. Servono luoghi dove si crei e si faccia comunità, dove i ragazzi possano incontrare dei pari o degli adulti significativi con i quali confrontarsi e crescere. Questo a livello di società. Poi per rispondere ai bisogni di quei ragazzi che manifestano grosse difficoltà dal punto di vista psicologico, sono necessarie risposte terapeutico diversificate. Vari punti d’ascolto.