Il giudice del Tribunale penale federale Roy Garré si sofferma sulle leggi contro la criminalità organizzata, le recenti riforme e i pericoli nascosti
“Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”. Prenderà spunto anche da Giovanni Falcone l’intervento di Roy Garré al primo convegno dell’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata, stasera alle cinque presso l’Aula Magna dell’Usi (Campus Ovest). Il presidente della Corte dei reclami penali del Tribunale penale federale partirà dall’articolo 260ter del codice penale per ripercorrere la storia – relativamente recente – della legislazione pensata proprio per riconoscere e combattere le mafie nascoste tra noi.
L’impressione di molti è che in Svizzera si sia compreso tardi il pericolo della criminalità organizzata – l’articolo 260ter è in vigore solo dal 1994 –, e che ancora oggi non se ne percepiscano le minacce e il radicamento nel territorio.
Il codice penale svizzero, in origine, non contemplava il reato di partecipazione a organizzazioni criminali. Si partiva dal presupposto che il reato fosse individuale. Anche negli anni 70 – quando si iniziò a discutere l’introduzione di un articolo ad hoc – vi fu molta resistenza: molti pensavano che non servisse una norma specifica, che bastassero quelle contro i singoli ‘reati-scopo’ di volta in volta commessi, dal traffico di droga agli atti di violenza. La sensibilità cambiò solo dalla fine degli anni 80, quando a colpire l’immaginario collettivo furono alcuni episodi clamorosi: il fallito attentato dell’Addaura – che oltre a Falcone mise in pericolo i magistrati svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehmann –, ma anche gli orrori della scena aperta della droga a Zurigo e le inchieste come Pizza Connection e Lebanon Connection. Allora si capì che bisognava anticipare la soglia di intervento, colpendo l’organizzazione in quanto tale.
Dal primo luglio la legge è cambiata. Come?
Le principali novità sono due. Anzitutto sono aumentate le pene: quella massima passa da 5 a 10 anni, addirittura 20 in casi di ruoli apicali. Inoltre si estende esplicitamente l’ambito della legge alle organizzazioni terroristiche.
Cosa c’entrano mafia e jihad? Non era meglio prevedere un articolo specifico per l’associazione mafiosa, come il 416bis in Italia?
Una formulazione più astratta e generale risulta più duttile rispetto alle varie forme di associazione criminale e all’evoluzione delle loro modalità operative, per cui penso che la normativa sia efficace. Questo anche se naturalmente si tratta di realtà diverse: il terrorismo punta alla massima visibilità, mafie come la ’ndrangheta hanno tutto l’interesse a mantenere un basso profilo per le loro attività, ovvero riciclaggio, traffico d’armi, protezione di latitanti, spaccio di droga…
A volte sembra che certi fenomeni sul territorio – ad esempio la presenza di attività commerciali quantomeno sospette – non siano perseguiti con la dovuta efficacia.
Non sta a me giudicare l’operato della polizia e della magistratura inquirente. Posso però dire che ogni anno sono decine i casi che giungono alla nostra Corte, sia in ambito di procedure nazionali che di assistenza internazionale, casi che la legge permette di perseguire efficacemente. Un ruolo fondamentale in questo impegno viene dalla collaborazione in gruppi di indagine comuni, come quelli previsti dall’accordo italo-svizzero: molti dei procedimenti in Svizzera nascono da questo lavoro congiunto.
L’Italia ha qualcosa da insegnarci nella lotta alla mafia?
Sicuramente. Magistrati e forze dell’ordine italiani si confrontano col fenomeno da oltre un secolo, spesso mettendo a rischio la loro vita per combattere il crimine organizzato. Ogni volta che sono confrontato con il loro lavoro sono colpito dalla loro esperienza, dalla loro preparazione e dal loro spirito di sacrificio, che trovo encomiabile, a tratti toccante.
Il Ticino fu per certi versi antesignano del 260ter, prevedendo già nel 1873 la “associazione di malfattori”. Oggi qual è la situazione locale in termini di presenza mafiosa?
Organizzazioni come la ’ndrangheta hanno tentacoli un po’ dappertutto in Svizzera. Naturalmente però il Ticino è più esposto già solo geograficamente e per la lingua. Anche in questo caso i reati spaziano dallo spaccio al riciclaggio, dal supporto logistico a quello finanziario, col risultato che anche l’identikit del mafioso è tutt’altro che univoco. Si tratta di organizzazioni che ruotano attorno a una socializzazione parallela, con le sue norme e le sue punizioni, i suoi codici e incentivi.
Però se occhio non vede, cuore non duole. Cosa risponde a chi ancora invita a non drammatizzare?
Rispondo che proprio questa società parallela minaccia direttamente lo Stato. La penetrazione mafiosa mette a rischio il tessuto economico e sociale. Anche se spesso quelli consumati in Svizzera sono reati poco visibili, non è detto che le stesse armi che passano di mano in mano non vengano un giorno utilizzate anche sul nostro territorio: il caso della strage della ’ndrangheta che nel 2007 fece sei morti a Duisburg lo dimostra. Non è certo un fenomeno solo siciliano o calabrese.