Proviamo a unire i puntini tra la figura del generale e il presente della diaspora ex-jugoslava con Nenad Stojanović, politologo
Era nato a Belgrado, ma è a Sarajevo che ha dedicato tutta la vita. Il generale Jovan Divjak, morto giovedì scorso a Sarajevo, diventò un simbolo della fratellanza quando scelse di combattere, lui serbo, nelle fila dell’esercito bosniaco. Difese la città dalle truppe serbo-bosniache durante i quasi quattro anni d’assedio, dal 1992 al 1996. Proviamo a unire i puntini tra la figura del generale e il presente della diaspora ex-jugoslava con Nenad Stojanovic, politologo e professore di Scienze politiche all’Università di Ginevra, giunto in Ticino dalla capitale bosniaca nel 1992; a Sarajevo ha dedicato il libro ‘C’era una volta una città’ e studia da anni le sfide della democrazia multiculturale. Stojanovic nota subito: «La figura di Divjak ebbe un ruolo importante anche per i sarajevesi all’estero, anche se non sarebbe corretto generalizzare e occorre ricordare che dopo tutto sono passati trent’anni. Di sicuro è esempio di chi riesce a superare la falsa idea di predestinazione etnica, di un mondo in cui tutto o è bianco o è nero. Un po’ come Bogic Bogicevic, il membro serbo-bosniaco della presidenza collettiva jugoslava, che quest’anno stava per diventare sindaco di Sarajevo prima di ritirarsi dalla corsa. Nel 1989, quando l’esercito già cercava di ottenere pieni poteri e la Serbia di Miloševic di fatto sosteneva il golpe, fu il suo ‘no’ in nome della Bosnia a ribaltare gli equilibri e ritardare la catastrofe». Ciò non significa che queste figure siano ancora assai conosciute tra chi vive ad esempio in Ticino, «anzi suppongo che molti ignorino chi fossero. Ma questo è il segno normale di una diaspora che si dissolve sempre più col passare delle generazioni, e dove si vanno superando le divisioni interne».
Come dire: il fatto di non avere più ‘bisogno’ di Divjak, almeno in Svizzera, segna in un certo senso il successo del dialogo da lui difeso per le strade di Sarajevo, alla faccia di chi propala lo stereotipo di comunità chiuse, litigiose e violente. «C’è chi fa più fatica a integrarsi, naturalmente, anche a seconda della sua estrazione culturale e delle sue capacità linguistiche. Non c’è poi dubbio che abbia maggiori problemi chi proviene dalle campagne, più chiuse e prone a una visione nazionalista. D’altronde la contrapposizione tra città e campagna fu anche un elemento scatenante del conflitto jugoslavo». In generale, però, «ormai siamo alla seconda e terza generazione, e le relazioni tra i diversi gruppi sono in generale buone quanto lo è il loro inserimento nel tessuto sociale ed economico svizzero».
Secondo il docente le associazioni ‘monoetniche’ – serbe, bosgnacche, croate – presenti sul territorio «hanno giocato un ruolo importante nell’accoglienza della prima generazione di immigrati, ma è inevitabile che si riducano sempre più a spazi per il tempo libero, senza nessuna volontà né possibilità di alimentare eventuali divisioni». Più ponti che muri, insomma.
Col risultato che anche l’ostilità da parte del resto dei residenti in Svizzera – il cliché razzista dello ‘jugo’ con le ciabatte e il coltello a serramanico in mano, ennesima variante di quella affibbiata nel tempo ad altri immigrati – è ormai sbiadita. Questo anche se «c’è ancora chi cerca di chiuderti in quelle che Alexander Langer, parlando del Sudtirolo, chiamava “gabbie etniche”», spiega Stojanovic citando il pacifista-ambientalista altoatesino. E «non è solo la destra quando rinfocola paure e stereotipi. Pur con le migliori intenzioni, anche il concetto ‘multietnico’ della sinistra presuppone qualcosa che non esiste se non nella percezione di sé e del prossimo, l’etnia appunto. Così vediamo le feste dove ogni comunità è invitata a partecipare coi suoi costumi, la sua musica, il suo cibo, ciascuna al suo tavolo. Una rappresentazione accogliente e benevola, ma stereotipata di quelli che alla fine sono individui».
D’altronde in Ticino oltre ottomila persone parlano ancora serbocroato, un numero quasi uguale a quello di dieci anni fa. Anche senza volerne sostenere una ‘doppia appartenenza’ alla Svizzera e al Paese d’origine – come facevano un tempo gli antisemiti tedeschi e come talvolta capita ancora quando si parla della ‘Nati’ –, è innegabile e forse anche controproducente ignorare certe radici. «Dipende sempre da cosa si intende per radici», specifica Stojanovic, «io stesso ai miei figli parlo serbocroato bosniaco, la madre parla loro svizzerotedesco, mentre lei e io parliamo italiano. La conoscenza linguistica e culturale è una buona cosa. Ma non si deve credere che col passare delle generazioni questa costituisca un ostacolo all’assimilazione. D’altro canto, è dal superamento di certi steccati che si è avviato il processo di osmosi col Paese».
Un altro timore infondato è quello di chi presume legami politici pericolosi tra la diaspora e i movimenti politici ultranazionalisti popolarissimi nei Paesi di provenienza: «Non escludo che in passato le rimesse dalla Svizzera siano servite anche a finanziare le parti in lotta e i movimenti nazionalisti. Ma ora mi pare che certi contatti siano molto flebili. Anche perché i partiti della ex-Jugoslavia non hanno mai perseguito quel tipo di proselitismo all’estero che invece contraddistingueva l’Italia ai tempi del Pci e della Dc, né quelle forme più aggressive di penetrazione che vediamo giungere dalla Turchia».
Variegato è d’altronde il comportamento elettorale dei naturalizzati. «Ogni tanto mi si viene a chiedere con stupore perché non votino compatti per quella sinistra che difende più esplicitamente i diritti degli immigrati», commenta Stojanovic. «Però è chiaro che chi resta più legato a una cultura ultranazionalista, pur destinata a dissolversi col passare del tempo, anche in Svizzera potrebbe guardare con più simpatia ai partiti di destra». Paese che vai, usanza che (ri)trovi.
Allo scopo di coniugare il dialogo interno con il sostegno alle terre d’origine Stojanovic ha contribuito a fondare ‘i-dijaspora’, l’unica associazione per l’ex-Jugoslavia in Svizzera «non monoetnica», che cioè cerca di gettare un ponte tra le diverse comunità in Bosnia ed Erzegovina (la ‘i’, corrispondente alla nostra ‘e’ e inclusa nel nome del Paese, sta a simboleggiare questo sforzo d’unione). Le attività, sostenute dalla Confederazione e disponibili sul portale i-platform.ch, «si concentrano soprattutto sul trasferimento di conoscenze: ad esempio seminari nei quali professionisti svizzeri di origine ex-jugoslava contribuiscono a formare i loro conterranei».