Secondo un sondaggio dell'Ufficio di statistica, le informazioni fornite dalle autorità all'inizio della pandemia sono state estremamente chiare
Se il successo della comunicazione governativa si misura nella percezione positiva che ne ha la cittadinanza, e nell’adesione alle direttive che ne risulta, allora non c’è dubbio: la comunicazione del Consiglio di Stato ticinese durante la prima ondata pandemica è stata un trionfo. Lo si desume leggendo i risultati del sondaggio che lo Stato maggiore cantonale di condotta (Smcc) e il Servizio dell’informazione e della comunicazione del Consiglio di Stato (Sic) hanno affidato all’Ufficio di statistica (Ustat). Risultati che ci riportano a un momento unico nel suo genere, insieme così vicino nel tempo e così lontano nella sua eccezionalità: la valutazione circa la chiarezza dell’informazione fornita è estremamente positiva, e anche la quantità di messaggi viene ritenuta adeguata da 4 intervistati su 5.
Il risultato giustifica la centralizzazione delle comunicazioni nelle mani della Polizia cantonale, la necessità per i media di passare dalla cruna d’ago dell’Smcc, e certifica il fatto che nel ‘parlare al popolo’ il governo abbia lavorato al meglio? Su questi aspetti la valutazione rimane inevitabilmente soggettiva, un po’ perché implica valutazioni politiche che un sondaggio non può fornire, un po’ perché il suo stesso esito è fortemente influenzato da un fenomeno più ampio, riscontrato anche fuori dal Ticino e ben noto agli studiosi di scienze politiche: il cosiddetto ‘rally around the flag effect’, ovvero la tendenza a stringersi ‘attorno alla bandiera’ in presenza di crisi gravi, di natura esogena e internazionale che minacciano la sicurezza individuale e collettiva. Quell’effetto che rende più efficace l’ubbidienza alle misure d’emergenza, e al contempo soffia nelle vele di chi comanda. Un po’ quello che è successo quasi ovunque, ad esempio in Italia: si pensi al salto enorme di consensi per il governo Conte.
Scavando invece tra le righe del rapporto finale, si ricorda come il momento della conferenza stampa fosse diventato per molti un appuntamento fisso in giorni incerti e sospesi, un momento al quale guardare con fiducia per lenire la propria insicurezza: un’occasione “di fruizione collettiva, nella consapevolezza che molte altre persone, nelle rispettive case, stanno seguendo e apprendendo le stesse cose nello stesso momento”, scrive il ricercatore dell’Ustat Mauro Stanga, paragonandola guccinianamente ai “’riti quotidiani’ di ognuno, al pari di ‘mangiare, sgomberare / poi lavare piatti e mani’”.
Un rito che proprio nel ‘Pensionato’, in senso anagrafico più che lirico, pare tradursi nei giudizi più lusinghieri: «In una fase in cui eravamo tutti più vulnerabili e bisognosi di sentirci protetti, è normale che quell’urgenza fosse sentita in particolare da chi è più minacciato dall’emergenza sanitaria, e magari scontava di più la solitudine della ‘reclusione’ casalinga», racconta Stanga a ‘laRegione’. Allo stesso tempo si vede come una valutazione più critica – sebbene comunque positiva – venga non solo dai più giovani, ma anche da chi ha un titolo di studio superiore. «La minore chiarezza delle comunicazioni percepita da queste categorie», nota Stanga, «può anche essere letta come l’espressione di un atteggiamento più critico in generale». (Anche perché, aggiungiamo noi, riesce difficile credere che un vispo ventenne laureato non capisca il significato di ‘state a casa’ e ‘lavatevi le mani’).
Dal sondaggio si vede anche bene come stringersi attorno all’esecutivo corrisponda a una reazione eguale e contraria verso tutte le altre istituzioni. In primis il Consiglio federale, anche se questa non è una novità, con gli screzi del momento innervati in Ticino da un tradizionale senso d’incomprensione: anche l’Ufficio federale di statistica ha rilevato la stessa (crescente) sfiducia. Una reazione analoga ha investito però anche il Gran consiglio, anch’esso in coda tra le istituzioni giudicate affidabili durante il lockdown. Non va meglio ai media, d’altronde, che nelle risposte aperte vengono spesso accusati di diffondere informazioni allarmistiche e di essere “interessati quasi più a screditare che a informare”. Una percezione da noi-contro-loro, insomma, che rovescia improvvisamente l’imputazione di servilismo più diffusa in tempi normali.
Resta però il fenomeno, un po’ schizofrenico, per cui proprio i media sono stati presi come veicolo imprescindibile dell’informazione cantonale: la tv in primis, ma anche i portali web, inclusi quelli dei giornali la cui versione cartacea «oltre a essere penalizzata dalla chiusura dei locali pubblici pagava il dazio di non poter veicolare le informazioni in tempo reale», così Stanga.
In ogni caso, si vede bene come in tempi estremamente incerti il ‘remare insieme’ venga premiato: “Ho percepito l’unità dei Consiglieri di Stato”, si legge in uno dei commenti giudicati più rappresentativi dell’opinione prevalente. Tra l’altro, «un terzo degli intervistati ha risposto anche alla richiesta di commenti liberi, cosa rara in un sondaggio, com’è anche raro che trattandosi d’interventi anonimi siano prevalentemente positivi». Alcuni messaggi un po’ buffi permettono d’intuire lo stato emotivo di molti: “Eroe nazionale”, si dice di un politico del quale la relazione non riporta il nome, “merita un monumento equestre. Magari si potrebbe mettere la sua statua a cavallo della foca in Piazza Governo”. Interessante, sempre restando alle risposte aperte, la graduatoria delle personalità più menzionate. Nell’ordine: il Medico cantonale Giorgio Merlani; il Comandante della polizia Matteo Cocchi; il Consigliere di Stato Christian Vitta; il Direttore sanitario e medico della Clinica Luganese Moncucco Christian Garzoni e i Consiglieri di Stato Manuele Bertoli e Norman Gobbi.
Merita un poscritto la questione delle mascherine, sempre d’attualità. Ricorderete come all’inizio della crisi non se ne incoraggiasse l’uso, un po’ per riservarne le scarse scorte al personale sanitario, un po’ perché effettivamente non erano ancora stati svolti tutti gli studi sulla loro efficacia effettuati invece negli ultimi mesi. Dall’analisi risulta che proprio sul loro impiego la comunicazione viene giudicata meno efficace, mentre la misura del polso collettivo registra la volontà di una loro imposizione, poi effettivamente avvenuta prima sui trasporti pubblici e ora nei negozi. Un’ultima lezione dell’emergenza, insomma: di fronte al pericolo, è il ‘popolo’ a chiedere obblighi; sperando che l’evoluzione dei contagi non ci riporti a quella situazione di confinati, bloccati in casa ad ascoltare “quel tic-tac di sveglia che enfatizza ogni secondo”.
Durante la prima ondata la popolazione sembra dunque essere rimasta soddisfatta della comunicazione legata alla pandemia da parte del governo ticinese. Recentemente, però, sembra essere cambiato qualcosa. Un episodio che ha generato più d’una perplessità è avvenuto domenica 8 novembre quando il Consiglio di Stato ha annunciato che le manifestazioni pubbliche e private con più di 5 persone sarebbero state vietate. Dopo le critiche ricevute, in particolare dal mondo della cultura, il governo ha così fatto un passo indietro permettendo a cinema, teatri, concerti e così via di accogliere fino a 30 spettatori. In questo caso «qualcosa non ha funzionato», osserva a ‘laRegione’ Peter Schulz, direttore dell’Istitito di comunicazione e salute presso l’Università della Svizzera italiana (Usi). Tuttavia, «errori possono sempre accadere. Inoltre, bisogna anche considerare che il governo si è corretto. E questo è un bene. Da questo tipo di errori si dovrebbe imparare semplicemente ad essere un po’ più cauti».
Ma questo ‘errore’ non è l’unico motivo per cui la popolazione fa più fatica a vivere questo momento. Rispetto alla prima ondata «è più difficile accettare ciò che sta accadendo», rileva il professore dell’Usi. E ciò fa sì che pure le nuove misure restrittive generino scontento. Misure che a volte sono anche oggettivamente difficili da comprendere. «Ci si può chiedere: perché si limitano le manifestazioni a cinque persone e non a sei? Oppure, sulla base di quale evidenze vengono prese queste decisioni?». Durante la prima ondata la popolazione ha però accettato misure anche più restrittive di quelle in vigore oggi. Come se lo spiega? «In primavera si stava andando incontro all’estate. Si pensava inoltre che la pandemia, come è iniziata, poteva anche terminare. E questo ha aiutato. Ora stiamo andando incontro all’inverno e sappiamo che questa situazione potrebbe proseguire fino a marzo. A ciò va poi aggiunto che vi è ancora un alto livello di incertezza».
Questo scontento, questo scetticismo nei confronti delle decisioni prese dal governo potrebbe portare a un rispetto minore delle disposizioni sanitarie o a proteste importanti nei confronti delle misure restrittive? «Non penso», afferma Schulz. «Da un lato notiamo un aumento dell’atteggiamento critico nei confronti di queste misure, ma dall’altro osserviamo anche che la maggior parte delle persone le rispetta. Non penso quindi che qualche problema riscontrato a livello comunicativo possa portare a conseguenze serie. La popolazione capisce che si tratta di una situazione delicata. Non sottovalutiamo quindi la ragionevolezza dei cittadini. Anche perché i fatti (ovvero il virus che continua a diffondersi con tutte le conseguenze del caso, ndr.) sono sotto gli occhi di tutti ed è quindi giusto proteggersi. Vi è poi un piccolo segmento della popolazione che non si fida delle parole espresse dalle autorità. Ma questo gruppo c’era già prima della pandemia e continuerà ad esistere anche in futuro».