Celebrati sabato i funerali del nostro collega Erminio Ferrari, tragicamente scomparso durante un'escursione in Valgrande
La felicità di Erminio
Metà anni 70: poco fuori Cannobio, in collina, c'è un preventorio. Se ascoltiamo bene sentiamo il suono di una chitarra. È una melodia semplice, cose di chiesa da domenica mattina che ancora non son battute le 9. Giovanni, già adolescente, è nel corpo di un bambino. Non cresce, non parla, ma quelle note, come sempre accade, lo ridestano: si alza e come un fulmine si precipita verso il giovane alla chitarra e gli si getta al collo con un'urgenza che tutti, i ragazzi e le suore, conoscono bene, e che accompagnano con sorrisi indulgenti. Allo strumento c'è l'Erminio, il musicista del gruppo, giunto come ogni settimana sulla vecchia Renault guidata dal parroco. Addosso ha l'Eskimo verde. Rossa e lunghissima è la sciarpa al collo.
Non è un caso sia proprio l'abbraccio, il primo gesto con cui ricordare Erminio Ferrari, o il “Rizzin”, come lo chiamano qui a Cannobio per via del papà, detto il Rizzi. Don Pietro Minoretti, il viceparroco di allora, lo ha fatto sabato mattina sul prato dell'oratorio don Silvio Gallotti durante l'estremo saluto al nostro collega, giornalista e scrittore, montanaro e fotografo, amico, confidente e mille altre cose, tragicamente e troppo presto scomparso in Valgrande.
Don Pietro ha ricordato l'Erminio ragazzo, cattolico e di sinistra insieme quando esserlo era una cosa seria. Quello di oggi, di ieri, lo ha salutato don Mauro Caglio, parroco di Cannobio, che la domenica mattina lo vedeva dirigersi in bici da mamma Ausilia. «Hai preso il giornale?», gli chiedeva. E intanto l'Erminio pedalava nel giorno incipiente e ci sembra di vedere tutto - gli anni che passano, l'odore del posto, i ricordi condivisi - nel rapido gesto accennato filando via, fra quei vicoli stretti foderati d'ombra.
«Era sempre preciso – ha detto don Mauro –: mai che dovessi richiamarlo per le chiavi del campanile». Parlava della notte fra il 7 e l'8 gennaio di ogni anno, il parroco, della ricorrenza del Santo Miracolo con cui Cannobio celebra la Pietà che nel 1522 ha pianto sangue, acqua e persino un costola, e per ricordarlo, da allora, i "montanari" si calano dal campanile con le corde per accendervi, negli interstizi, i "lumineri", e con quelle luci annunciare che Cannobio, oggi, è in festa. Erminio, con suo figlio Tazio, era fra loro.
Tazio, uguale sputato al padre e che deve avergliene fatte vedere di tutti i colori, secondo il suo stesso ricordo: «Ma proprio di ogni! A lui devo la passione per la montagna», ha detto il giovane, oggi quotata guida alpina; quella montagna «buona per andarci con gli amici a sparare minchiate, ma soprattutto luogo da raggiungere con fatica, per poi godersela. A mio padre piacevano entrambe le cose, ma specialmente la seconda». Che lo cambiava dentro, ha detto il presidente del Soccorso alpino di Cannobio. «Erminio, che era uno di noi, ci aveva difesi da certe derive burocratiche capaci di spegnere il senso di una missione». Poi ha letto il finale di un'email che sembrava uno dei suoi commenti, tanto era chiaro, netto, scandito in quel suo modo gentile e intelligente di ragionare, e se possibile far ragionare.
E, ancora, le voci del coro della Parrocchia e quelle struggenti, inevitabili, del Coro della Bricolla, che altro non poteva intonare se non quel "Dio del cielo Signore delle cime" che è incredulità e raccomandazione, dolore e speranza. Lo stesso dolore e la stessa speranza espressi da Marta, la figlia: una bella ragazza scossa dai singhiozzi ma così cristallina nel testimoniare a quella folla silenziosa l'amore per il suo papà e giustamente rivendicarne la precedenza nella lunghissima catena degli affetti di cui in vita ha saputo costruire la trama. Ma veri e profondi sono stati tutti, perché l'Erminio bastava incontrarlo una volta, o anche solo leggerlo, per cominciare a volergli bene.
C'era anche la banda, nella vita dell'Erminio di casa sua: il Corpo filarmonico cannobiese con la cui uniforme il ragazzo, e poi l'adulto, sfilava, indurendo le labbra sul bocchino del flicorno e del trombone anche se era la tromba, il suo primo strumento. Hanno intonato un "Bella ciao", gli amici della musica, mentre quelli del Soccorso alpino accompagnavano il feretro chiaro attraverso il prato con i loro passi oggi indecisi, fragili, quasi a rifiutarsi di muoverli.
Davanti a noi, nello sfollare silenzioso inzuppato di quei ricordi che riemergono e struggono, un bambino con la sua piccola mano cercava il viso della sua mamma. Lo voleva toccare ed era un pasticcio pieno d'amore. È in quegli occhi che per un attimo abbiamo rivisto l'Erminio: occhi grandi, limpidi e curiosi. Continueranno a guardarci, e noi non abbasseremo lo sguardo.