Ciao Ermi

Erminio Ferrari: penna, scarponi e passione

Il nostro collega, giornalista e scrittore, ha perso la vita ieri, vittima di un incidente in montagna. Un ricordo.

Erminio Ferrari, 1959-2020

Erminio non c’è più. Se ne è andato in un giorno d’autunno nella sua montagna, quella montagna che da sempre amava. Il nostro collega Erminio Ferrari è morto, vittima di un incidente, durante un’escursione con la figlia. Erano al pizzo Marona, sui sentieri del parco nazionale della Val Grande, nel Verbano-Cusio-Ossola. Stando a quanto riferito dal sito online della ‘Stampa’, Erminio avrebbe messo un piede in fallo ed è quindi precipitato. La caduta è stata fatale. Vano, riferisce il portale italiano, si è rivelato l’intervento del Soccorso alpino (del quale peraltro Erminio era volontario) e dell’elicottero del 118. Ferrari, due figli, aveva 61 anni. Viveva a Cannobio, di cui era originario. In Svizzera aveva cominciato la carriera giornalistica all’‘Eco di Locarno’, occupandosi per anni di cronaca. Alla ‘Regione’ era responsabile del settore Esteri. Apprezzato editorialista, penna graffiante, Erminio si è sempre contraddistinto per la profondità delle sue analisi. Celebri i suoi reportage, nei primi anni Novanta, dai luoghi dell’ex Jugoslavia devastati dalla guerra civile. Erminio Ferrari lascia un grande vuoto nel giornalismo, non solo ticinese. In questo triste momento, editore, direzione, redazione e personale tecnico de ‘laRegione’ si stringono intorno alla famiglia.

Giacomo Salvioni: ‘Con noi dall’inizio’

Chissà quale sostantivo sceglierebbe Erminio per descrivere lo stato d’animo di tutti, alla notizia che non lo leggeremo più. Magari ‘sconcerto’, la sensazione che accompagna l’editore Giacomo Salvioni: «Persona educata, animato da una critica costruttiva, grandissimo giornalista. Come scriveva lui certi pezzi, era una meraviglia. Erminio è stato con noi sin dall’inizio, dal 1992. Abbiamo sempre avuto un bel rapporto». Per descrivere «l’eterno ragazzino», concetto che tornerà in questa pagina, Salvioni chiama in causa «Gianni Morandi, una di quelle persone che non invecchiano mai». L’editore ricorda l’ultimo suo fondo e l’ultima sua speciale, soltanto ieri. E ricorda il suo essere «tutt'altro che un chiacchierone. Magari alla festa di Natale non si presentava, ma ci si trovava su a parlare nella stanzetta del caffè. Perché in 25 anni, credo non sia mai entrato nel mio ufficio. Ci parlavamo nei corridoi. Chissà, forse gli ricordavano le strade di montagna».

Daniel Ritzer: ‘Impariamo a vivere senza’

«La prima volta che ho incontrato Erminio in redazione – racconta Daniel Ritzer, futuro direttore della Regione, oggi vice – ero in totale imbarazzo, frutto dell’ammirazione. Gli dissi quanto ero lieto di conoscerlo, e gli strinsi la mano, perché a quel tempo si poteva ancora farlo e gli dissi quello che pensavo e che penso tutt'ora, ovvero che i suoi pezzi erano il motivo più grande per leggere laRegione, perché una capacità d'analisi come la sua non la conosco e la perdita è enorme. Un giorno mi chiese d'incontrarci per sottopormi le sue riserve in merito al mio ingresso al giornale. Me lo disse con tale sincerità che mi fece anche piacere ascoltarlo. Col tempo abbiamo imparato a conoscerci, la stima nei suoi confronti è rimasta la stessa e credo che nel tempo lui abbia capito qualcosa di più su chi sono e qual è il mio intento qui». Un aneddoto: «Durante il lockdown, quando chiedemmo ai colleghi di lavorare da casa, lui mi disse: "E io a casa cosa faccio?". Andai dall'editore a dirgli che Erminio aveva bisogno di stare con noi, e noi con lui». E adesso? «E adesso non ci resta che imparare a vivere e a produrre questo giornale senza di lui».

Andrea Manna: 'Quella volta a Venezia'

«Con Erminio ho condiviso più di trent’anni di giornalismo» dice Andrea Manna, caporedattore centrale, presto vice direttore de laRegione. Il primo incontro tra i due: «Fu a una conferenza stampa tenuta dall’allora sindaco di Gordola Efrem Regazzi su un’iniziativa che riguardava degli alpeggi. Lui era già all’Eco di Locarno, io mi trovavo alla redazione di Locarno del Corriere del Ticino, lo avrei raggiunto alcuni mesi dopo». L'ultimo: «Martedì sera, di ritorno da un programma televisivo sono rientrato in redazione; alle 23 ci siamo lasciati con il solito saluto, “Ciao Ermi”, “Ciao guitar”, sapendo della mia passione per la chitarra. Guardare quella scrivania vuota è una stretta al cuore incredibile».

Con stima reciproca anche nella frequente diversità di vedute – «Il mio modo d’intendere il giornalismo è più sulla notizia, lui, dedicandosi agli esteri, più verso l’approfondimento, e i suoi editoriali lo testimoniano per la profondità di analisi» – Manna ricorda il reportage insieme da Venezia, anno 1996: «Era il primo raduno leghista. Era una giornata calda, faticosa. La sera dovemmo peregrinare per la città alla ricerca di una redazione dalla quale poter scrivere e inviare i pezzi alla redazione. A un certo punto saltarono i collegamenti e tornammo a dettare gli articoli al telefono, come ai vecchi tempi». Concludendo: «Ciao Erminio, hai insegnato parecchio. Anche al sottoscritto».

Lillo Alaimo: 'Uguali, un po' diversi'

“Erminio era un uomo profondo, ricco di umanità e di cultura”, dice Lillo Alaimo, direttore del ‘Caffè’, vice della ‘Regione’ nel primo anno di vita del quotidiano e già caporedattore dell’’Eco di Locarno’. La voce di Alaimo è rotta dall’emozione. “Conobbi Erminio ai tempi della scuola media, lui aveva qualche anno meno di me - racconta Alaimo -. La nostra amicizia si rafforzò frequentando nel tempo libero l’oratorio. Avevamo entrambi la passione per la montagna, trasmessaci da Teresio Valsesia, che era solito ricordarci che ‘In montagna si va con il passo delle montagne, non con quello degli uomini’. In quel periodo, grazie anche a Teresio, nacque in Erminio e nel sottoscritto un’altra passione: quella per il giornalismo. Con altri ragazzi fondammo così un settimanale, un settimanale ciclostilato: si chiamava ‘Dialoghi’. Lo distribuivamo la domenica per le strade di Cannobio. Ed era a pagamento”. I ricordi sono tanti: “In quegli anni Erminio, io e un nostro amico ci definivamo gli intellettuali del dissenso e avevamo una tradizione: più o meno ogni anno a Santo Stefano andavamo in treno a Venezia, per trascorrervi qualche giorno. Ci recavamo in un noto bar: io consumavo una spremuta d’arancia, Erminio un caffè. In fondo Erminio è rimasto un intellettuale del dissenso, con una capacità di scrittura e argomentativa notevole. Alla fine degli anni Ottanta lo convinsi ad abbandonare il lavoro di fiorista e a darsi al giornalismo. Lo convinsi così a venire a lavorare all’’Eco di Locarno’. Oggi - afferma Alaimo, autore nel 1985 con Ferrari e Daniele Grassi del libro ‘Luoghi non tanto comuni’ - nei numeri del ‘Caffè’ che chiudono l’anno concludo gli editoriali con una frase che non è mia, ma di Erminio: ‘Sempre uguali, ma un po’ diversi’ “.

Aldo Sofia: 'Lucido e mai banale'

“È la perdita molto dolorosa innanzitutto di una persona buona, di un’umiltà per nulla arrendevole, ma che non poteva non conquistare qualsiasi interlocutore, e che in qualche modo contrastava con le sue tante qualità», lo ricorda Aldo Sofia, editorialista de laRegione, già giornalista Rsi e direttore del Corso di giornalismo della Svizzera italiana. «Le qualità di un professionista scrupoloso, direi quasi certosino, tanto che nella pagina degli esteri di cui era responsabile non si limitava quasi mai a inserire notizie di agenzia, cosi come le riceveva: le completava, le arricchiva, cosa rara in altre testate. Sapeva, perché ne aveva la grande capacità e le conoscenze specifiche, come renderle ancor più comprensibili, togliendo loro una certa patina anonima. Si capiva che lo poteva fare pescando il necessario in quel prezioso scrigno che era la memoria di tanti anni di lavoro, delle innumerevoli notizie passate al setaccio nelle un po’ solitarie giornate redazionali, di tanti fatti capiti, approfonditi, commentati».

Entrando più nel personale: «Gli debbo molto, per i suoi consigli e i suoi incoraggiamenti.  Ho sempre pensato che fosse il migliore nello scrivere, la penna più efficace, lucida e mai banale, e avrei voluto dirglielo più spesso. Quando capitava (la domenica, il ‘nostro’ giorno) sentivo appunto tutta la sua genuina e divertita ritrosia. Del resto, non aveva mai accettato i diversi inviti in programma radio-televisivi, o come relatore ai corsi di giornalismo. Per capire di cosa parlo basta rileggere anche solo il suo ultimo commento dell’altro ieri, tosto e tagliente, una sorta di esemplare commiato, sulla prima pagina del giornale. Ma per conoscere Erminio, la sua sensibilità dietro l’espressione di perenne ragazzo apparentemente un po’ smarrito, e il rapporto intimo e speciale con i personaggi che animano il suo lago, le sue valli, la sua stalla, la sua montagna (lui respingerebbe l’idea di essere stato tradito da quella sua montagna) bisognava e bisogna gustare la delicatezza dei tanti racconti che ha pubblicato. Lui, incaricato di raccontare per il giornale le gesta spesso enigmatiche e insane dei grandi del pianeta, incantato dai senza storia di una quotidianità anonima, normale, gioiosa o affaticata”.

Bobo Antonini: ‘Addio Sergente Ermi’

«Fa un po’ strano parlare al passato di un carissimo amico», commenta Bobo Antonini, al quale serve un bel respiro profondo. «Erminio Ferrari – racconta il giornalista Rsi, spesso a dividersi con lui l’editoriale di questo giornale – è stato una splendida firma, colui che ha rialzato il livello del giornalismo nella Svizzera italiana. Chi lo ha conosciuto, sa che nella scrittura era una persona molto aperta sul mondo, capace di analisi brillanti e molto originali, cosa che contrastava col suo essere solitario, quasi eremita. L’ultima cosa che mi aveva inviato, la fotografia di un vitellino. Io lo prendevo sempre in giro, gli dicevo “È vent’anni che vai dalle tue caprette, che ti isoli dal mondo!”. Credo che l’isolamento fosse una sua forma di resistenza contro i social, che non ha mai amato, il bisogno di ritrovare un po’ se stesso, di ritrovarsi». E se qualcuno in redazione si conservava i suoi articoli – a metà newsroom c’è chi da tempo si è appeso l’intervista di Ermi a Bruno Segre – Antonini a volte ha preso appunti: «Singolare, mai scontato. Il guardare in se stesso probabilmente gli permetteva di capire le dinamiche di un mondo rumoroso che scorre così in fretta. La capacità di percepirne l’essenza è cosa rara e nei suoi commenti ci è spesso riuscito». Quasi citando Salvioni: «Erminio ai miei occhi è stato un eterno adolescente, non sono mai riuscito a pensare alla sua età anagrafica. Lo chiamavo Sergente Ermi – dall’attore Ronald Lee Ermey, il sergente Hartman di ‘Full Metal Jacket’ – perché fingevo mi desse ordini nel fare i pezzi. E invece era anche fin troppo generoso nei miei confronti». Antonini ricorderà Ferrari a ‘Laser’, ReteDue, domani alle 9 in una puntata consacrata al suo rapporto con la montagna.

Teresio Valsesia: ‘Originale, preparato, aperto’

«Erminio quand’era giovane veniva a casa mia, gli prestavo i libri di montagna, lo aiutavo a coltivare il suo interesse. Era importante aiutarlo. Un tema che lo affascinava e al quale si è poi dedicato anche da giornalista e compiendo imprese notevoli. Era infatti un ottimo alpinista e insieme abbiamo fatto talvolta delle uscite, all’inizio. Come spesso accade anche ai migliori alpinisti, è morto affrontando una montagna secondaria e che probabilmente conosceva bene». Teresio Valsesia, classe 1941, una vita dedicata alla cronaca, autore di una trentina di pubblicazioni e già vicepresidente del Club alpino italiano, anch’egli di casa a Cannobio come Erminio. Due generazioni ma due modi simili di osservare e descrivere le quote, anche interiori. Alla Val Grande, che si estende a nord del litorale piemontese del Verbano fra Intra e Cannobio, monti che sovente il nostro collega citava anche solo per raccontare, con aneddoti divertenti, che vi portava le vacche a estivare, Valsesia ha dedicato più libri sin dagli anni ’70, contribuendo poi all’istituzione del parco nazionale.

«Erminio – ricorda – era approdato all’Eco di Locarno mentre io stavo passando al Giornale del Popolo. Successivamente ha pubblicato diversi libri ed era secondo me uno dei migliori scrittori di montagna. Originale, autobiografico, preparato, aperto, approfondiva molto i temi cui s’interessava, fra i quali citerei quello della Resistenza. Molto riservato, non credo apprezzasse la retorica degli elogi». Parlando del luogo della tragedia, il Pizzo Marona, alto poco più di 2’000 metri, Valsesia lo descrive come «una montagna ‘ripida e ferrigna’, un po’ traditrice. Negli anni ’70 due giovani di Ghiffa vi avevano trovato la morte lasciando grande dolore nella regione. Per Erminio, così altruista facendo parte del Soccorso alpino, è la stessa cosa».


L'Ermi fotografo: Helgenhorn (2'873 metri, Val Bedretto, Val Formazza)

Dal fronte

‘Qui la pace muore’

Il mondo e l’Italia, narrata col graffio e l’amarezza insieme, portavano la firma di Erminio Ferrari. ‘La storia sopra Berlino’ per raccontare il Muro vent’anni dopo; ‘Una vita da Andreotti’, nel giorno della morte del ‘Divo’, dopo averne seguito assiduamente il processo; ‘Il caso (non) è chiuso’ a 25 anni dal rapimento e l’uccisione di Aldo Moro (‘La storia delle Brigate Rosse appartiene all’Italia. La verità no’). I titoli, di Ermi, erano una doppia firma. Detto di Venezia, della nascita della sedicente e secessionista Repubblica Padana (“Venuta al mondo avendo come madrina la menzogna e padrino il kitsch”), l’inviato Erminio Ferrari è soprattutto quello nell’ex-Jugoslavia.

‘Qui la pace muore’, titolava dall’entroterra dalmata, contrapponendo la costa dei “tepori adriatici e di bandiere croate” a un interno di “desolazione di case ridotte a brandelli”. È il febbraio del 1993 e il giornalista scrive da Zara a proposito della guerra serbocroata in Krajina, nel pieno degli scontri nell’enclave di Knin e nei giorni in cui a New York si sta cercando senza convinzione un accordo tra le parti. Proprio a Zara, Ferrari scatta istantanee il cui negativo è quello del ritratto e della testimonianza, che nella camera oscura della rotativa diventano nitide fotografie: “Quando finirà?”. «Quando? – sorride amaro un collega croato, che aggiunge – vedi quanto tricolore sventola sulle nostre case? La maledizione di questa guerra è che tutti combattono sotto la stessa bandiera: bianco-rosso-blu quella croata, bianco-rosso-blu quella serba». E anche a Zara come spesso accadeva, pressoché sempre, l’articolo diventava romanzo storico, oltre che cruda realtà, con la forza del racconto delle piccole cose e le facce degli eroi non da copertina: “Fuori, dove la vita sembra scorrere normalmente, c’è chi la guerra la trova comunque interessante, come un giovanissimo soldato croato incontrato alla stazione dei bus di Zara. Esibisce un bossolo di obice grande quasi quanto la sua persona: se anche domani venisse la pace, lui il trofeo di guerra se lo è già fatto”.

Nei giorni dei bombardamenti su Sarajevo, Ferrari scrive dal campo di Karlovac in territorio croato, ai confini con la Bosnia, a soli tre chilometri dalla guerra: “Da qui Sarajevo è lontana. Di mezzo c’è quel cuneo di Bosnia che arriva quasi a ridosso di Zagabria, infiammato e distrutto”. In quell’edizione de laRegione sfilano visi e volti dell’enclave musulmana – “Enclave, la parola che, insieme a pulizia etnica, la guerra jugoslava ha introdotto nei nostri vocabolari” –, Razak il muratore diventato soldato e scampato ai lager, l’anziano di Prjedor che a Erminio dice: “Vorrei tornare con te, giornalista, nel mio paese: ti indicherei ad uno ad uno i luoghi dove ho visto uccidere e straziare”. In mezzo al dolore, con la compostezza del suo ‘Porporì’, Ferrari trovava il modo di parlare di musica, degli “echi gitani di violino, fisarmonica, contrabbasso, chitarra” dell’orchestrina che un tempo accompagnava i matrimoni, nozze in cui ora “la ragazza crede di sposarsi soltanto con il suo amato e invece sposa una causa. È la guerra”. Così chiudeva Ferrari quel 4 maggio del 1993: “Solo chi arriva a Karlovac può ritenersi salvo. Dalla morte, non dall’incubo da cui è appena uscito”. B.D.

L’ultima 

Ogni granello di sabbia

di Stefano Guerra

C’è quella montagna: per te il Limidario, per me il Ghiridone. Casa tua (ci hai sempre vissuto sotto e... sopra), solo orizzonte mio (fin da bambino la vedo, oltre il Piano di Magadino, là in fondo, dove c’è il lago). Confine, contatto. C’è un libro, fra tanti: ‘La messa dell’uomo disarmato’, di Luisito Bianchi. Resistenza (che qui “si eleva da evento storico a Rivelazione”, scrivesti nel 2008 sulla ‘Regione’), gratuità. Il tuo mondo, un po’ anche mio (i racconti di guerra dei miei nonni, conterranei di don Luisito, con te condivisi). Testimonianza. La tua, discreta: sta anche in questi occhiali neri posati con cura sul tappetino del mouse, sulla tua scrivania, vicina alla mia. E io “Nella furia di un istante / riesco a scorgere la mano del Signore / In ogni foglia tremante / in ogni granello di sabbia” (‘Every grain of sand’ di Bob Dylan, cantata da Lizz Wright in un disco che stavo per regalarti).

 

 

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