C'è chi chiede più uomini e mezzi per combattere l'infiltrazione mafiosa. Paolo Bernasconi: 'Attenzione alle società buca lettere'
Le carte della Procura della Repubblica di Catanzaro relative all’operazione anti ’ndrangheta tra Italia e Svizzera di cui si è avuta notizia ieri, sono uno spaccato da manuale dell'economia criminale. Un’economia, che al pari di quella legale, non conosce frontiere. Anzi, le stesse diventano un’opportunità per diversificare le attività, utilizzare i diversi apparati normativi e sfruttarli a proprio vantaggio. A un certo punto, per esempio, si cita un interrogatorio di Gennaro Pulice, pentito di ‘ndrangheta già condannato per omicidio e con trascorsi anche in Ticino (cfr. laRegione 31.12.2018) avendo abitato tra il 2013 e il 2015 a Viganello. Ebbene, rispondendo alle domande del sostituto procuratore Elio Romano, Pulice ricordava che Rocco Anello, boss della cosca Anello-Fruci, aveva interessi economici in una ditta attiva nel settore fotovoltaico e di generatori elettrici con ramificazioni internazionali. Pulice parlava di attività in Svizzera, ma anche a Bucarest (Romania), a Budapest (Ungheria), a Milano e addirittura in Egitto. In Svizzera, a detta di Pulici, avrebbe riciclato denaro per conto proprio del titolare ‘palese’ di questa azienda descritto - nel verbale dell’interrogatorio del 28 luglio 2015 - come un normale imprenditore intenzionato a delocalizzare la sua attività in Svizzera, creando una struttura finanziaria che riunisse le varie società italiane e rumene del gruppo e permettesse addirittura un’ottimizzazione fiscale. Insomma, pagare sì le tasse su attività criminali, ma il meno possibile.
Ed è qui il punto: la criminalità organizzata ha bisogno di immettere in un circuito economico legale le ingenti somme ricavate da attività illegali (traffico di armi, stupefacenti, estorsioni, eccetera). Non per niente i tre ‘svizzeri’ (i due di Argovia e il ‘ticinese’) coinvolti nell’inchiesta denominata ‘Imponimento’, tutti originari della provincia calabrese di Vibo Valentia, sono indicati dagli inquirenti della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro come “referenti degli Anello-Fruci in territorio elvetico”. In pratica ne curavano gli affari “provvedendo al comparto armi e gestione attività economiche, riscuotendo soldi (le cosiddette ‘potature’) e trasportando, in contanti, ingenti somme di denaro verso Filadelfia (Vibo Valentia)”. Nelle carte si parla in particolare di un locale notturno a Muri (Argovia) e varie attività di ristorazione, ma anche di compro oro.
L’inchiesta partita dalla Calabria e che ha trovato comunque una collaborazione attiva da parte del Ministero pubblico della Confederazione, fa sorgere più di una domanda sul rischio di infiltrazioni mafiose e sulle modalità di contrasto. Fabio Regazzi, consigliere nazionale del Ppd, ha sollevato il tema di forze e mezzi insufficienti da parte svizzera (cfr. laRegione del 22.7.2015).
«La polizia federale e quella del cantone Ticino sanno da decenni che il crimine organizzato si infiltra nel nostro paese. Fortunatamente i procedimenti e le indagini italiane ci avvertono periodicamente della intensità di queste infiltrazioni», afferma da noi contattato l’avvocato Paolo Bernasconi. «Alla polizia ticinese mancano le risorse. Perché sono male impiegate: il Consiglio di Stato deve studiare le circolari della Sezione della popolazione e calcolare quante centinaia di ore vengono dedicate da parte di decine di funzionari della Polizia cantonale e delle polizie comunali per verificare se tutte le persone straniere titolari di permesso B trascorrono effettivamente più di 180 giorni l’anno nel cantone». «Questi funzionari di polizia sono diventati specialisti sul consumo di alimentari e impiego degli abbigliamenti personali: decine di perquisizioni non annunciate, anche nel periodo Covid, per frugare negli armadi e nei frigoriferi», sottolinea Bernasconi. «Da conteggiare poi le giornate spese dagli impiegati per revocare permessi a persone onestissime con motivazioni che vengono periodicamente annullate in sede di ricorso». Mancano risorse anche a livello federale. «Quante sono le giornate impiegate da decine di funzionari della Sem per lunghissimi estenuanti interrogatori di persone perseguitate in cerca di rifugio nel nostro paese, studiati per mettere in contraddizione e in trappola questi sventurati, tanto è vero che vengono interrogati senza avvocato». «Intanto operano indisturbati stranieri che costituiscono società buca lettere utilizzate per sostenere le organizzazioni criminali italiane e di altri paesi», conclude l’avvocato Bernasconi.
Di carenti controlli sul territorio e di contrasto serio alle infiltrazioni mafiose parla anche il granconsigliere del Plr Matteo Quadranti, già autore di alcuni atti parlamentari sul mancato coordinamento tra Ministero pubblico della Confederazione e Ministero pubblico del Cantone Ticino. «Bisogna sicuramente intervenire a livello federale per dotare gli inquirenti svizzeri di strumenti legali più efficaci, magari mutuandoli dalla legislazione anti-terrorismo», afferma Quadranti che indica nel potenziamento dell’attività di intelligence un mezzo valido di contrasto anche alle organizzazioni criminali. Un altro aspetto sollevato da Quadranti è la facilità con cui le cosche mafiose accedono alle armi in Svizzera. «Più volte interrogato il Consiglio di Stato ha sempre affermato che le attuali norme in materia di armi sono sufficientemente restrittive ricordando che la legislazione cantonale non può introdurre condizioni più restrittive su questa materia già disciplinata in ambito federale».